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Greenwashing, ci vuole un corso universitario per smascherarlo
Come riconoscere le strategie di greenwashing delle aziende: è questo l’obiettivo del corso tenuto dalla docente universitaria Laura Corazza.
A metà ottobre, appena due settimane dopo che l’uragano Ian aveva colpito la Florida, la professoressa Bertha Vazquez ha chiesto ai suoi studenti di seconda media di cercare online informazioni sulla crisi climatica. Nello specifico, voleva che gli alunni trovassero siti che mettessero in discussione il ruolo degli esseri umani nell’aumento delle temperature globali e che risalissero a chi li finanziava. Un esercizio non semplice per dei dodicenni, ma Vazquez gli ha insegnato a distinguere i fatti sul clima dalla massa di disinformazione che riempiono internet. Insegnare chi sta dietro la comunicazione ambientale è diventato fondamentale per comprendere la complessità dei fenomeni di cui leggiamo sui giornali. In Italia, un lavoro di questo genere, lo sta facendo Laura Corazza, ricercatrice presso il dipartimento di management dell’Università di Torino, la quale ha introdotto nel percorso di studio degli studenti universitari un corso sul greenwashing. Le abbiamo rivolto qualche domanda.
Laura, hai introdotto il tema del greenwashing nel corso universitario di cui sei docente. Come ha avuto inizio questo esperimento?
Quest’estate, ho letto di diverse polemiche nate sulla serietà del concetto di greenwashing. Il greenwashing è un ambito di ricerca serio, ma anche una minaccia al potere dei consumatori. Basti pensare alle introduzioni normative, in Italia ed in Europa, a tutela dei consumatori. Capire le diverse sfumature e i diversi dettagli attraverso cui un’azienda può perpetrare una strategia di ambientalismo di facciata è un processo che, per forza di cose, ha bisogno di spiegazioni e di controdeduzioni. Non è una questione di mera ideologia. Servono conoscenze e competenze specifiche che ovviamente si scontrano contro la tendenza sempre più diffusa del fast-watching, ma anche il debunking deve avvenire in modo rigoroso.
Hai parlato di fast-watching. Pensi che il nostro modo di informarci sia diventato troppo superficiale?
Ammettiamolo. Chi di noi almeno una volta non ha ceduto al desiderio di premere il tasto avanti veloce per velocizzare un dialogo troppo noioso o scene troppo “lente” della propria serie preferita? Non è più solo una cosa da giovani, anzi, scrollare, skippare, il “2x” sta diventando un’abitudine generalizzata indipendentemente dall’età. Lo fanno tutti, giovani e meno giovani. WhatsApp, Netflix, TikTok ci aiutano a velocizzare quando non abbiamo tempo per guardare tutto un film o ascoltare un intero dialogo. Noi vogliamo arrivare subito al sodo, vedere come va a finire. Non è per forza un male. Ma ciò che indubbiamente nasconde un velo mistico di incoerenza, è che non tutto ciò che è complesso si può riassumere in un video di TikTok.
E questa superficialità, questa fretta di arrivare a carpire il senso generale dell’informazione attraverso poche occhiate, sta favorendo una comunicazione aziendale ingannevole in campo ambientale?
Le aziende – ma non solo le aziende – possono sfruttare questa nostra abitudine di scarsa focalizzazione puntando molto su claim che hanno la capacità di colpire chi li riceve, con un turbinio di hashtag e di parole chiave che hanno il solo scopo di impressionare chi li guarda, e trasmettere un messaggio specifico: quell’azienda o quel progetto sono green o, più in generale, sostenibili. Se ci si abitua a guardare con scarsa attenzione, come suggerito da anni di studi in tema di neuromarketing, rimaniamo indubbiamente catturati da grafiche, colori, movimenti, ma in realtà non stiamo realmente riflettendo sul contenuto del messaggio trasmesso. Talvolta accade infatti che non si abbia il tempo sufficiente per chiederci se ciò che ci viene comunicato sia minimamente coerente con il messaggio e soprattutto sull’intenzionalità di chi quel messaggio lo ha creato. Di conseguenza, è molto più difficile per un utente con poco tempo e scarsa attenzione, riuscire a distinguere se quel messaggio è stato configurato e realizzato per convincerti o per informarti.
Esiste una disciplina di studio che si occupa di smascherare casi di greenwashing?
Solitamente, per smascherare un’azione di greenwashing ci va tempo, ci va studio, e si ha anche bisogno di mettere in atto dei processi, che vengono chiamati appunto di counter-account ossia dimostrare attraverso evidenze che un determinato fenomeno o un evento non è avvenuto nel modo in cui chi ha creato il messaggio ci vuole far credere. Saper distinguere che cos’è greenwashing da cosa non lo è rappresenta uno dei campi di studio del cosiddetto Sustainability accounting and accountability, una disciplina nata negli anni Ottanta e consolidata nei decenni successivi, e che vede nel Centre for social and environmental accounting research (Csear) presso l’università di St. Andrews in Scozia, uno dei suoi più importanti centri di studio e di ricerca.
Quindi cosa proponi agli studenti all’interno del tuo corso?
Nel mio corso di Sustainability accounting and accountability insegno ai futuri manager, lezione per lezione, ad imparare contenuti e nuove skill che possono applicare a un caso specifico. Si cerca dunque di stimolare le competenze metacognitive. Una volta individuato un caso specifico, gli studenti sono quindi chiamati a confrontarsi da un lato con quanto l’azienda comunica, attraverso i suoi social network o i suoi report di sostenibilità, dall’altro cerchiamo di ricostruire se quell’azienda sia stata coinvolta in qualche problematica connessa alla sua sostenibilità. Non solo green ovviamente, ma anche problemi sociali, etici e finanziari. Ad esempio, i futuri manager in formazione utilizzano database quali il Global atlas of environmental justice e CorpWatch per controllare l’esistenza di scandali che potrebbero coinvolgere le aziende che stanno analizzando. Successivamente si vagliano fonti autonome e report di ong e associazioni. E si controlla per quanto tempo, un determinato scandalo rientri nella narrativa aziendale e come tale scandalo si connetta ad implicazioni finanziarie, se esistenti.
E una volta raccolte tutte queste informazioni, come si procede?
In un livello successivo, gli studenti mettono a confronto le due versioni di un caso di greenwashing, applicando per esempio, delle logiche di razionalizzazione grafica dei problemi, attraverso una rappresentazione che applichi la teoria dei sistemi o attraverso mappe mentali. Durante il corso, si cercano inoltre dei benchmark positivi, per poter creare dei parallelismi, e capire quindi quali sono le dinamiche che permettono di affermare se ci si trovi di fronte ad un caso di facciata organizzativa o di impression management, così come si definisce all’interno degli studi di sustainability accounting. Gli studenti sono anche chiamati a confrontare le performance di sostenibilità dell’azienda scelta con quelle dei competitor, creando indicatori trasversali, cercando di capire che impatto un eventuale incidente di greenwashing abbia generato a livello finanziario, di reputazione sull’azienda stessa e sull’intero settore.
Facci degli esempi concreti. Su quali casi avete lavorato?
Ad esempio, un gruppo di studenti voleva lavorare sui claim green di Ryanair, a seguito dei ripetuti claim dell’azienda irlandese. Gli studenti hanno quindi iniziato un vero e proprio confronto tra quanto affermato dall’azienda in termini di emissioni di CO2 totali, per poi elaborare misure come emissioni di CO2 a km e a km/passeggero, e hanno utilizzato dei benchmark di aziende dello stesso settore come Lufthansa, e di aziende concorrenti con un business model molto simile come EasyJet. Per confermare questi risultati abbiamo usato anche l’ultimo report di Greenpeace proprio sul contributo al cambiamento climatico da parte delle compagnie aeree.
Altri gruppi hanno lavorato sul tema del material consumption associato a Coca-Cola, specie per quanto concerne l’utilizzo del Pet riciclato, confrontando le performance con quelle di Pepsi, sebbene il modello di business delle due realtà non sia identico, dato che la seconda detiene marchi rilevanti anche nel settore degli snack. Gli studenti hanno quindi analizzato e preso in esame, non solo il report di sostenibilità delle due aziende, ma anche report indipendenti da parte di ong come l’Earth island institute. In maniera simile, si sono confrontate anche Adidas e Nike, sempre sul tema dell’utilizzo dei materiali e la contabilizzazione dei rifiuti di produzione. O ancora, colossi del settore beverage come Heineken che è stato oggetto di confronto con AB InBev, che ha dichiarato di voler diventare il primo produttore di birra net zero su tutta la catena di fornitura entro il 2040. In ogni caso specifico, le dichiarazioni vengono confrontate con i dati reali, e con misure solitamente validate utilizzate per redigere i report di sostenibilità, quali le linee guida del Global
reporting initiative.
Vi rivolgete anche direttamente alle aziende?
La componente dialogica si trova proprio nell’utilizzo dei social, che offrono possibilità di interazione e di dialogo per chiedere conto. In parole povere, chiedere a quell’azienda che ci presenti i dati, le informazioni, i numeri, che testimoniano quello che afferma. Qualora non sia facile distinguere o comprendere una determinata situazione, sono proprio gli studenti che si offrono di entrare in contatto con le aziende stesse per avere le risposte. Gli studenti, come futuri manager, iniziano ad apprendere l’importanza della coerenza tra contenitore e contenuto che è fondamentale per le decisioni aziendali. È importante che gli studenti apprendano come muoversi all’interno dei dati, per capire se il messaggio originale è effettivamente dimostrabile e verificabile, e soprattutto coerente con un piano di decisioni aziendali connesso ad obiettivi, che dovrebbero essere rendicontabili e raggiunti.
Qual è la risposta degli studenti? Apprezzano questo approccio?
I temi affrontati nel corso risultano essere importanti per il futuro professionale dei neolaureati. Il corso in questione ha raddoppiato il numero di iscritti ogni anno, sebbene sia un corso aggiuntivo erogato in lingua inglese, arrivando a circa 130 partecipanti. Di questi, 50 hanno deciso di discutere una tesi proprio sui temi del sustainability accounting. Il corso è per sua natura multidisciplinare, per cui gli studenti che lo frequentano sono chiamati a sapersi destreggiare tra rudimenti di fisica, chimica, ma anche riferimenti normativi e culturali. Si spera dunque, che si possa iniziare a parlare di un dibattito serio e costruttivo in tema di greenwashing e non un tema da bannare e da condannare, ma da capire e approfondire per poter realmente realizzare un cambiamento culturale.
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