Guerra e crisi sono un ottimo affare per le compagnie petrolifere

Le compagnie petrolifere fanno grandi affari grazie all’instabilità del mercato e alla guerra. E i progetti di estrazione continuano ad aumentare.

  • La guerra in Ucraina si è rivelata un ottimo affare per le compagnie petrolifere.
  • Shell, Exxon, Chevron e Bp hanno centrato profitti da record, raddoppiando o triplicando le proprie entrate.
  • Le compagnie non reinvestono i propri profitti nella transizione energetica.

La guerra in Ucraina, finora, si è rivelata un affare per “Big Oil”. Le 4 maggiori compagnie petrolifere (Shell, ExxonMobil, Chevron e Bp) hanno centrato profitti da record in questo periodo. Più in generale, tutto il settore dei combustibili fossili gode di ottima salute.

Lo dicono i numeri: nel primo trimestre del 2022, Shell ha realizzato più di 9 miliardi di dollari, quasi il triplo rispetto al primo trimestre del 2021. Exxon Mobil ha raddoppiato i suoi profitti rispetto al periodo dell’anno precedente, registrando 5,48 miliardi la scorsa settimana. Chevron ha raggiunto quota 6,3 miliardi di dollari, mentre Bp, con un aumento di 6,2 miliardi di dollari, ha registrato la cifra più alta degli ultimi dieci anni di bilancio.

Insomma, l’invasione della Russia dimostra ancora una volta quanto l’economia globale sia costruita intorno ai combustibili fossili. Gli enormi guadagni delle società del settore oil & gas dovrebbero accendere un riflettore sui mancati investimenti degli extra-profitti nella tanto necessaria transizione energetica.

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Un pozzo di estrazione di petrolio in un terminal per auto in California © David McNew/Getty Images

Le compagnie petrolifere puntano su nuovi progetti

Il mancato reinvestimento degli utili nella transizione ha due conseguenze. La prima è che i costi della crisi di mercato continueranno a pesare sulle tasche dei consumatori (benzina e riscaldamento in primis). Per non parlare delle emissioni in atmosfera: se si continua ad estrarre petrolio e gas, non verranno mai raggiunti gli obiettivi climatici per i quali sono state spese molte parole. E questo nonostante l’Agenzia internazionale per l’energia sia stata piuttosto chiara: nel suo report di maggio 2021, l’Iea ha invitato a bloccare tutti i nuovi progetti di estrazione di gas e petrolio se vogliamo che l’aumento delle temperature stia al di sotto di 1,5 gradi centigradi.

Purtroppo “soldo fa soldo” e gli ottimi ricavi ottenuti dalle compagnie, come rivelato da un’inchiesta del Guardian, hanno convinto Big Oil che sia utile pianificare centinaia di nuovi progetti per l’estrazione di combustibili. Un piano di investimenti preparato in gran segreto e che si tradurrà in una “bomba di emissioni” per il nostro pianeta.

Una catastrofe ambientale e umanitaria, in nome del profitto

Una catastrofe, insomma, nel nome del profitto. I piani di espansione a breve termine dell’industria dei combustibili fossili prevede nella fattispecie l’avvio di 195 progetti che produrranno una quantità di gas serra equivalente a quella prodotta in un decennio dalla Cina, il più grande “inquinatore” del mondo. Ma questa volta non è la Cina a detenere il record di progetti pianificati, bensì Stati Uniti, Australia e Canada. La cosa più grave è che il 60 per cento di questi progetti è già in fase operativa e le tecniche di estrazione scelte sono – manco a dirlo – tra le più impattanti: fracking, sabbie bituminose ed estrazioni nelle acque dell’Artico.

Ma i nuovi progetti sono solamente una parte del problema. A guardarla nella giusta prospettiva, le Big Oil del mondo occidentale hanno solo il 10 per cento circa delle riserve e una quota simile nella produzione globale di idrocarburi. I progetti di estrazione più grandi sono quelli portati avanti dalle cosiddette Noc (National oil company), ovvero i colossi statali: stiamo parlando di Gazprom, Saudi Aramco e Qatar Energy. È fondamentale, quindi, coinvolgere anche queste nel discorso globale sulla transizione.

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© Govind Bhutada/VisualCapitalist

Tra queste società c’è anche Eni

A dire il vero, le multinazionali dei combustibili fossili non si sono arricchite unicamente grazie all’instabilità causata dalla guerra. Gli utili dell’italiana Eni, per esempio, hanno registrato un balzo in avanti del 53 per cento già nell’ultimo quadrimestre del 2021, quando il prezzo del gas aveva iniziato ad aumentare. Nonostante gli inviti alla decarbonizzazione, il portafoglio esplorativo di idrocarburi di Eni è stato rinnovato con nuovi permessi in tutto il mondo: Angola, Costa d’Avorio, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Norvegia, Regno Unito e Vietnam, come spiega l’associazione Re:Common.

Secondo il piano di Eni, gli extra-profitti generati verranno reinvestiti nel fossile, il cui picco sarà raggiunto solo nel 2025. E all’Italia va bene così: il governo italiano aveva introdotto a febbraio 2022 una scure anti “extra-profitti” per togliere guadagni a chi si era arricchito e per dare sostegno a famiglie e aziende colpite dai rincari. Paradossalmente, il decreto ha colpito parte del comparto delle rinnovabili (come le cooperative) e lasciato indenne il piano di investimenti di Eni.

Le compagnie petrolifere reinvestono poco nella transizione energetica

Ma perché è così difficile obbligare il settore oil & gas a reinvestire gli extra-profitti nella transizione energetica? Se è vero, infatti, che le compagnie petrolifere e del gas stanno diversificando i loro portafogli per aggiungere fonti di energia rinnovabile, lo è altrettanto il fatto che queste non stanno abbandonando il loro core business: l’estrazione di combustibili fossili.

L’anno scorso Shell ha speso 2,4 miliardi di dollari, ovvero il 13 per cento dei suoi investimenti, per la transizione energetica, quindi in progetti che hanno al centro fonti rinnovabili. Nel primo trimestre del 2022, l’azienda ha speso 985 milioni di dollari nel comparto delle fonti pulite. A malapena un decimo dei suoi profitti del primo trimestre.

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Gli Stati Uniti guidano la classifica di nuovi progetti di estrazione di gas e petrolio © Larry French/Getty Images for Friends of the Earth

Una ong ha citato in giudizio il Canada

E pensare che non mancano le manifestazioni di protesta da parte della società civile: a maggio di un anno fa, un fondo di attivisti è riuscito, tramite l’azionariato critico, a entrare nel consiglio di amministrazione della ExxonMobil ed esercitare una pressione dall’interno in merito ai temi della responsabilità ambientale. Nello stesso periodo, un tribunale dei Paesi Bassi ha ordinato a Shell di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra entro il 2030. Shell ha contestato la sentenza e da allora ha spostato il suo quartier generale dai Paesi Bassi alla Gran Bretagna.

Sentenze di questo tipo prendono di mira anche la responsabilità dei governi: il Canada è stato di recente citato in giudizio dall’organizzazione Ecojustice (di cui fa parte anche una ong co-fondata dall’attuale ministro dell’Ambiente canadese Steven Guilbeault), presso la corte federale, nel tentativo di bloccare il piano della norvegese Equinor di estrarre 300 milioni di barili di petrolio al largo di Terranova.

È ora di rendere il petrolio e il gas anti-economici

Alla fine del primo trimestre del 2021, quando gli amministratori delegati delle tre maggiori compagnie petrolifere e del gas statunitensi hanno presentato i guadagni delle loro aziende, gli investitori avevano sollevato una serie di domande su come le società intendevano affrontare i cambiamenti climatici. Nel 2022, invece, gli stessi azionisti, davanti agli immensi profitti, si sono concentrati solo sui dividendi, abbandonando le velleità ambientali.

Money talks, dicono gli inglesi, e quest’anno – a differenza dello scorso – quello dell’oil & gas è il settore con le migliori prestazioni sul mercato finanziario. “In un’economia di libero mercato, dove regna il guadagno, come si riduce gradualmente un prodotto che sta realizzando enormi profitti?”, si chiede il giornalista Justin Worland su Time. “Questi hanno guidato la negazione climatica del settore fin dall’inizio; e ora stanno guidando le decisioni di investimento. Il regno del petrolio finirà quando non sarà più un buon investimento”. Ma come? La risposta è sempre la stessa: investire sulle fonti rinnovabili ed eliminare qualsiasi sovvenzione ai combustibili fossili. Solo così potremo rendere petrolio e gas “anti-economici”.

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