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Guerra in Ucraina, storie dal confine polacco
Una piccola stazione dei treni affronta un esodo di profughi senza precedenti. Quando l’umanità è più forte della disperazione.
“Non sappiamo quanti treni arrivano, né quando e nemmeno quante persone ci siano sopra. Al massimo ci dicono il numero di vagoni e da lì abbiamo un’idea, che però non ci serve a nulla. La stazione è piccola, l’esodo è immenso”. Katerina lavora come volontaria nella stazione di Przemysl, in Polonia, un paese con poco più di 60mila abitanti, a quindici chilometri da Medyka, al confine con l’Ucraina.
Un piccolo centro fino a qualche giorno fa sconosciuto, dove ora sono accampati media da tutto il mondo per raccontare l’arrivo di circa 20mila persone al giorno che fuggono dalla guerra. Anche se la stima dei numeri può essere solo approssimativa, secondo gli ultimi dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), dal confine con l’Ucraina, la Polonia ha accolto in tre settimane 2 milioni di profughi, un flusso migratorio senza uguali in Europa. Al confine con la Bielorussia invece, per yemeniti, siriani, iracheni, afghani che arrivano dalla rotta balcanica, il sistema adottato dal governo polacco è quello dei respingimenti. Una doppia politica migratoria, discriminante e razzista, che non può però offuscare lo sforzo immane di tutti i cittadini polacchi che, nella piccola stazione di Przemysl come in molte altre zone del paese, sono impegnati a titolo volontario da oltre un mese nell’accoglienza dei profughi provenienti dall’Ucraina.
La stazione Przemysl è il primo porto dopo la fuga
I turni di lavoro dei volontari impegnati nella stazione polacca superano abbondantemente le 24 ore. Sono uomini e donne di tutte le età, ma anche ragazzini che distribuiscono cioccolato e caramelle girando con i cartoni. Oltre ai volontari ci sono decine di persone, privati cittadini e associazioni, con in mano cartelli che offrono posti per dormire e passaggi gratuiti in ogni capitale europea. L’offerta c’è, ma la domanda è nettamente superiore e i posti in auto e nelle case finiscono in un batter di ciglia. Basta un’esitazione per perdere l’opportunità. Katerina coordina l’accoglienza nella stazione delle persone più fragili: mamme con bambini e anziani, che sono poi la maggioranza. Gli spazi disponibili sono uno stanzone con brande e coperte al piano terra e quattro piccole camere al piano di sopra, destinate solo ai neonati. Le ore più dure sono di notte, quando arrivano più treni e nel giro di mezz’ora non c’è più nemmeno mezzo metro di spazio per far sedere le persone sul pavimento. Fuori la temperatura è sotto lo zero.
Ogni treno è un’ondata enorme di persone da aiutare
“Da ogni treno scendono migliaia di persone e ognuna di loro ha bisogno di aiuto”. Spiega Katerina. “Acqua, cibo, vestiti, medicine, schede telefoniche, informazioni su dove andare, come arrivarci e soprattutto di un posto dove riposare almeno per qualche ora, ma non sappiamo dove metterli. Scappando dalle bombe hanno affrontato un’odissea durata giorni, non per la distanza, ma per l’attesa. Salgono con estrema difficoltà su vagoni gremiti di persone anche nei corridoi, che però iniziamo a muoversi anche dieci ore dopo e arrivati al confine è impossibile sapere quanto tempo ci vorrà per attraversare la frontiera”.
Per i volontari di Przemysl, che sono tanti, motivatissimi, ancora combattivi e con il morale alto, ogni arrivo è come l’onda di uno tsunami, si avverte nell’aria perché l’adrenalina, mai scesa del tutto, ha di nuovo un picco. Entrano in un sistema di allerta dove sanno che dovranno aiutare, dirottare negli altri punti di accoglienza e far ripartire da lì il maggior numero di persone, nel minor tempo possibile, prima del treno successivo.
“Siamo costretti a far alzare dalle brande donne che hanno riposato un paio d’ore, per lasciare il posto a chi non si sdraia da due giorni”. Aggiunge Katerina. “È straziante, ma non abbiamo un’alternativa.”
Non si entra solo dalla porta
Cibo e bevande calde vengono distribuite gratuitamente 24 ore su 24. Dalla finestra del corridoio, accanto alla sala delle biglietterie, si butta fuori la spazzatura che qualcuno ritirerà e si fa entrare tutto quello che porta la gente.
È un via vai ininterrotto di auto, furgoni, minibus e di gente a piedi che dalla Polonia e da tutta Europa accorre per lasciare ogni genere di cosa: passeggini, scarpe, berrette, coperte, creme, detersivi e cibo. Quello che può servire sia alle persone che ai tanti animali domestici che viaggiano con loro. Ma ad entrare in stazione dalla finestra non è solo il materiale.
Sono le tre del mattino, nello stanzone con le brande anche lo spazio sul pavimento è esaurito, ci sono persone che cercano di riposare ovunque e nel corridoio la fila di mamme che aspetta di poter entrare. Il volto di Katerina ha come un cedimento: “Ci hanno detto che stanno arrivando ancora molti bambini. Ce li passeranno dalla finestra, per la calca non riescono nemmeno a raggiungere l’ingresso”.
Le donne ucraine che vogliono aiutare i volontari polacchi
La gente che scende dal treno sembra essere dotata di nervi d’acciaio; non un lamento, non una pretesa, non un tono di voce sopra le righe. Solo qualche lacrima rara, composta e silenziosa. L’unica reazione decisa e contrariata è verso i fotografi.
Le donne trascinano in mezzo alla folla bagagli con bambini addormentati sopra. Un piccolo di due anni dorme come un bambolotto a cavalcioni sul trolley in corsa, le spalle abbandonate sulle due aste della maniglia estraibile e la faccia caduta nello spazio di mezzo. Ci si mette un attimo a capire che è possibile. Sono in molte a non accettare di sentirsi in fuga, sconfitte e a fermare i volontari: “Il mio treno parte tra due ore” dice una donna con occhi neri e decisi a una giovane polacca.
“Adesso dimmi come posso aiutare. Ho già raccolto un sacco di spazzatura, dammene un altro per favore. Siamo esauste noi, ma lo siete anche voi, lo capiamo e vogliamo fare qualcosa.” Le donne ucraine, combattono lo sfinimento cercando di dare un senso alla loro presenza lì ed è chiaro che non c’è spazio per impedirglielo, ne hanno troppo bisogno. Mamme che, quando lasciano la branda per ripartire, passano lunghi minuti a togliere fino all’ultima briciola fatta cadere dai figli sulle coperte. Le stesse coperte che vengono usate ormai da più di dieci giorni.
I bambini persi nella stazione
Nonostante la tempra, la lucidità è intermittente e nella confusione totale alle madri capita di perdere o dimenticare i figli da qualche parte. E i piccoli lì vedi lì, come pali bassi, irrigiditi nel terrore e nelle tutte da sci che gli hanno messo addosso almeno per proteggerli dal freddo. Sanno che se si perdono hanno l’ordine è di non spostarsi. Allora non muovono nemmeno un dito, mentre i singhiozzi gli mozzano i respiro. Bambini di ogni età giocano con le pile di peluche portati dalla gente, alcuni hanno disabilità gravi ma in nessuno compare mai nemmeno l’ombra di un capriccio. Quando dormono però, si possono vedere sotto le coperte braccia e gambe scattare all’improvviso dallo spavento, l’inconscio che affiora in superficie.
Inseguire il ladro del cane e perdere il bambino
Katerina, con il suo viso dolce, il taglio corto e gli occhi azzurri mi dice di essere finita in televisione: nelle immagini la si vede tenere in braccio un bambino di circa due anni che nella confusione ha perso la mamma. Mamma e figlio si sono ritrovati, ma dietro questo breve spezzone di telegiornale, Katerina racconta una storia che ha dell’incredibile: “Mentre si muovevano insieme per andare finalmente a prendere il treno per ripartire, la mamma si era accorta che qualcuno aveva rubato il loro cane e stava scappando. La donna, per correre dietro al ladro ha lasciato da solo il bambino.
Quando ha capito che non sarebbe riuscita a raggiungere il ladro, è tornata subito dal figlio, ma senza trovarlo per via della confusione. Aveva perso il figlio per cercare di recuperare inutilmente il cane. Dopo lunghissimi minuti di panico, proprio quando con l’aiuto della polizia siamo riusciti a farli riabbracciare, in mezzo a lacrime liberatorie, un uomo si è avvicinato con il loro cane. Questa persona aveva capito la situazione e aveva continuato l’inseguimento, recuperando il cagnolino. Tutto questo è successo mentre il treno che aspettavano da tante ore si stava già muovendo su un altro binario. Mi sono lanciata, urlando al personale di fermare il treno. Non so come è stato possibile, ma mamma, figlio e cane sono riusciti a partire insieme”.
Partorire e scappare, senza soluzione di continuità
Al piano superiore della stazione accompagnano una ragazza marocchina poco più che ventenne, l’espressione del pianto le si è come congelata in viso. Si muove con un’andatura strana, quasi ondeggiante. L’andatura delle donne che dopo il parto camminano ancora come se avessero il pancione. La sua bimba ha tre giorni, il tempo che le è servito per varcare il confine e lasciarsi la guerra alle spalle, insieme al cagnolino di piccola taglia che nel trasportino non si muove nemmeno più.
Nel corridoio invece c’è la piccola Amira che ha sei mesi, suo papà è partito con lei perché non è cittadino ucraino. Vengono da Kharkiv. Julia, la mamma, ha lasciato i suoi genitori lì. “Mio papà ha 57 anni e per la legge marziale non può lasciare il paese. Mia mamma è rimasta con lui. Io me ne sono andata solo per mia figlia, abbiamo resistito il più possibile, praticamente vivevamo in metropolitana, ma i bombardamenti non si fermavano”.
Tutto quello che fino a un giorno prima aveva un senso, ora non lo ha più
Oxana è sul binario fuori dalla biglietteria, ha 37 anni e viene da Kyiv. “Vivevo nella parte della città che hanno colpito pesantemente, da dove i russi stanno cercando di entrare”. Parla un inglese fluente, lavora come grafica per clienti stranieri. Ha viaggiato da sola e dentro la biglietteria di Przemysl non è riuscita a trovare un angolo per sedersi per terra.
“Ci avevano riferito che arrivati in questa stazione ci avrebbero dato un tetto sulla testa, ma è paese piccolissimo e non possono fare più di quanto già stanno facendo. Credo che tenterò la fortuna a Cracovia”. Oxana ha voglia di raccontare: “Ti svegli e tutto quello che fino a poche ore prima facevi, anche con impegno perché aveva un valore, perde completamente di senso. Ho provato a resistere. Ogni due ore suonavano le sirene e correvo nel bunker, ma era un posto tutt’altro che sicuro, a volte ci trovavamo i soldati russi o le loro armi. Molte persone, soprattutto quelle con più anni di me, mi dicevano di stare tranquilla, come se fossero già abituati a tutto questo. Me ne sono andata nel momento esatto in cui ho sentito che non ce la facevo più a restare. Siamo scappati tutti per lo stesso unico motivo, salvarci la pelle”.
Quel palazzo così attraente per gli aerei russi
“Perché i russi avrebbero dovuto risparmiare proprio me?”. Continua Oxana. “Il mio è il palazzo più alto, che si staglia solitario proprio nella cintura che protegge il centro della città. Sono certissima che quando un aereo russo passerà da lì, quel palazzo sarà un bersaglio troppo attraente”. Mentre lo dice, proietta il suo sguardo lontanissimo e stringe gli occhi a fessura. Si sta immedesimando nel pilota carico di tensione, adrenalina e godimento, l’attimo prima di sganciare una bomba sulla sua casa, il bersaglio irresistibile. “I miei genitori sono abbastanza anziani da essere esausti. Non sono in buone condizioni di salute. All’inizio cercavo di spronarli per portarli nel bunker, ma per loro anche solo spostarsi significa sofferenza. Sono lì e vanno incontro al loro destino”.
Quando finiamo di parlare la bottiglietta d’acqua mi cade oltre la barriera, accanto ai binari. Cerco di capire come recuperarla. Oxana mi saluta: “Buona fortuna con la bottiglia, hai la tua impresa da compiere. Certo non è così dura come quella delle persone che sono qui adesso. Ma ognuno ha la propria avventura da vivere”.
Accanto a chi arriva c’è anche chi parte
All’incrocio prima della stazione, un uomo mi ferma al semaforo. Lo guardo, deve avere cinquant’anni, una giacca che mi sembra troppo leggera e in mano tiene un sacchetto di plastica con succhi di frutta e cracker. Mi dice una frase in polacco e capisco solo “Medyka, Ucraina”. Per spiegarsi solleva le braccia come a tenere un mitra che spara. Ora mi è chiaro. Gli indico dove prendere il biglietto per il confine e si allontana con il passo semplice e leggero di chi va a combattere, come se non avesse niente da perdere.
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