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A ka, la danza che infonde coraggio
A ka mate ka mate Ka ora ka ora Ka mate ka mate Ka ora ka ora Tenei te tahgata puhuruhuru Nana i tiki mai whakawhiti te re A hupane a kaupane Whiti te rea hi
A ka mate, ka mate
Ka ora, ka ora
Ka mate, ka mate
Ka ora, ka ora
Tenei te tahgata puhuruhuru
Nana i tiki mai whakawhiti te re
A hupane, a kaupane
Whiti te rea, hi !
E’ la morte, è la morte
E’ la vita, è la vita
Questo è l’uomo con molti capelli sopra di me
Che mi ha permesso di vivere
Io salgo verso l’alto un passo dopo l’altro
Verso il sole che splende
Nell’antica cultura Maori
la guerra era una vera e propria scienza militare che i giovani
imparavano sin da piccoli. La debolezza era stimata un delitto
mentre coraggio, forza
e abilità erano valori che attribuivano carisma e prestigio
personale. In guerra, ogni spedizione veniva preparata eccitando
gli animi con discorsi guerreschi e cerimonie religiose, stimolando
la passione e la vendetta attraverso preghiere e canti di battaglia
con i quali i guerrieri si consacravano a Tu, dio della guerra, ma
soprattutto inscenando l’haka la cui funzione era quella
di infondere nei guerrieri il coraggio necessario per affrontare il
nemico, terrorizzandolo ancor prima dello scontro con una mimica
minacciosa e terrificante.
Mentre i guerrieri si lanciavano sul nemico, il sacerdote, al
sicuro su di un’altura seguiva tutte le fasi del combattimento
pronunciando una karakia (preghiera) perché non
venisse meno il coraggio dei suoi uomini.
Dopo James Cook che descrisse l’haka nelle sue memorie,
si deve a Felice Vaggioli, abate benedettino che nell’ ottocento
soggiornò a lungo in Nuova Zelanda, una delle più
lunghe e pittoresche descrizioni di questa danza guerresca:
“Non vi è una favella che possa descrivere al vero questa
danza orrenda….
“Non vi è una favella che possa descrivere al vero questa
danza orrenda. (…) Colla regolarità di un reggimento in
manovra, ciascuno di quei selvaggi alzava la gamba e la parte
destra del corpo e poi la gamba e la parte sinistra, indi colla
velocità di un baleno saltavano in aria all’altezza di
sessanta centimetri, brandendo e fendendo l’aria colle armi e
urlando una spaventosa canzone marziale, la quale finiva con un
lungo, profondo, ed espressivo sospiro. Questa musica infernale,
vero pandemonio, era accompagnata da bocche spalancate e spumanti,
da turgide narici, da visi distorti, da lingue pendenti mezzo palmo
dalla bocca, da occhi spalancati, sanguigni e quasi uscenti dalle
orbite (…)”.
La leggenda racconta che due secoli fa Te Rauparaha, un capo
tribù inseguito dai nemici, chiese all’amico Te Whareangi di
proteggerlo. Costui lo nascose in una capanna a guardia della quale
mise la sua stessa consorte Te Rangikoaera poiché i Maori
credevano che i genitali femminili avessero una funzione
protettiva. All’arrivo dei nemici, il fuggitivo sussurrò
Ka mate (muoio), ma quando gli avversari si allontanarono,
sviati da Te Whareangi, ripetè sollevato la parola Ka
ora (vivo) e onorò l’amico, ovvero “l’uomo dai lunghi
capelli” che lo aveva protetto e gli aveva dato la
possibilità di vedere nuovamente “il sole che splende”,
inscenando pubblicamente una danza di ringraziamento in onore del
suo salvatore.
E’ così che nacque l’haka. I Maori, che una
volta erano guerrieri, ancora oggi sentono di esserlo soprattutto
quando scendono in campo vestendo la celebre maglia nera degli
All Blacks (Tutti Neri), la fortissima e imbattibile
squadra di rugby neozelandese composta da molti atleti Maori che
hanno involontariamente consacrato la definitiva mondializzazione
della loro danza, dentro e fuori dai campi di gioco.
Nel 2000 infatti l’Adidas ha vinto l’oscar della
pubblicità proprio grazie a un esplosivo spot di trenta
secondi che miscelava haka, All Blacks e volti di
Maori tatuati. E, ancora adesso, i giocatori,
prima di ogni inizio partita si schierano tutti a centrocampo per
eseguire il suggestivo
rito collettivo dell’haka che fa
salire l’adrenalina nel sangue e serve per intimorire gli avversari
che se ne stanno a debita distanza. Il campo di gioco si trasforma
per pochi infiniti istanti in una marae – quello che un
tempo era per i Maori lo spazio a cielo aperto dove si tenevano le
funzioni sociali e religiose – mentre il pubblico partecipa
affascinato e ammutolito poichè l’haka è una
cerimonia sacra e non soltanto ostentazione di potenza, coraggio e
possenza muscolare, dunque va seguita con rispettoso silenzio.
E quando i giocatori alzano al cielo la loro preghiera, urlando
e battendo i piedi, è impossibile non riconoscere in
quell’antico rito nato come cerimonia di ringraziamento, un
significato che trascende ogni particolare agonistico. In esso,
infatti, c’è il
riscatto culturale di un popolo fiero, il rimarcare
un’identità mai tramontata che in una società come
quella neozelandese non trova sempre la via dell’integrazione.
Maurizio Torretti
Bibliografia:
Alberto Corteggiani, I Figli di Maui, Bulzoni Editore,
pagg.324
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