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Hervé Barmasse. Se vivi la natura te ne innamori, e quindi la proteggi
La lotta per la difesa dell’acqua è ciò che lega le montagne e l’Africa a Hervé Barmasse. L’alpinista crede e promuove un profondo rapporto con la natura per la sua protezione.
Se ami qualcosa, non vuoi che questa soffra. È il semplice e lineare concetto con cui l’alpinista e guida alpina Hervé Barmasse si approccia alla montagna e alla natura in generale. Ogni volta che viviamo sulla nostra pelle un’esperienza, un ambiente, e ci connettiamo capendone la bellezza da un lato ma anche le minacce dall’altro, aumentando la nostra consapevolezza. E gettando le basi per la sua protezione.
Quando si parla di montagna e conservazione la si associa principalmente ai ghiacciai, e alla loro fusione, sorvolando l’elemento che in realtà li compone: l’acqua. In montagna l’acqua è predominante, semplicemente in uno stato diverso da quello a cui siamo abituati a vederla di solito. In occasione della Giornata mondiale dell’acqua abbiamo parlato con Barmasse del valore di questa risorsa negli ambienti di montagna, territori da cui proviene il 60 per cento dell’acqua potabile del nostro pianeta.
L’acqua è il bene comune più importante che abbiamo e che ci lega a doppio filo con ogni persona del mondo. Proprio nel continente più colpito dalla mancanza di questa risorsa, l’Africa, l’alpinista ha deciso di continuare la sua battaglia per la sua salvaguardia insieme ad Amref, organizzazione che ha l’obiettivo di garantire accesso universale alla salute nel continente, abbracciandone la filosofia e diventando suo testimonial. “L’acqua per tutti è vita, che io poi la veda in forma diversa poco cambia”. Abbiamo parlato con Barmasse di montagna, acqua, attivismo, e cosa unisce tutti questi elementi.
L’intervista a Hervé Barmasse su montagna, acqua e conservazione
Qual è e come è nato il suo rapporto con le montagne?
Il mio contatto stretto con la natura è avvenuto grazie all’alpinismo. L’alpinismo ti permette di vivere un rapporto con la natura, anche in solitudine, molto reale, molto intimo. La natura, soprattutto anni fa, sembrava un po’ il nostro palcoscenico, mentre oggi ci rendiamo conto che è parte di noi stessi. Se la natura sta bene l’uomo sta bene. Quando sei da solo nei confronti della montagna ti svesti di maschere, di corazze, sei proprio tu e lei. Questa cosa quando la vivi la capisci meglio. E capisci che con la natura ci può essere un dialogo, ci puoi parlare, la puoi sentire, percepire: la natura non ha una voce ma si esprime in modo molto chiaro.
Facendo una solitaria, poi, ci deve essere un dialogo con gli elementi. Chiaramente l’elemento che mi circonda in questo caso è il Cervino, ma in generale è proprio la montagna. E lì vivi di percezioni. Chi scala da solo comunque non è un pazzo, tutto viene ponderato, anche se qualsiasi tipo di pericolo oggettivo è meno controllabile. Quindi è un rapporto molto più intimo con la montagna – e amplificato. Quando vai da solo è come se vivessi un po’ in una bolla. E in questa bolla sembra tutto ovattato da un certo punto di vista, ma sei più sensibile a tutto dall’altro. È come se il silenzio avesse una voce, è come se i rumori ti dicessero qualcosa. Un sasso che cade è un allarme, fai veramente attenzione a tutto.
Poi attraverso queste esperienze ti fai qualche domanda: cosa stiamo facendo e dove stiamo andando? Cos’è importante? E io mi rendo conto che per me è importante questo terreno di gioco che serve per praticare l’alpinismo. Senza questo terreno di gioco mancherebbe tutto: la poesia, la mia vita, il mio lavoro, la mia passione, la mia felicità.
In questo senso crede che le attività outdoor, e la loro filosofia, possano riconnettere le persone all’ambiente e quindi creare più consapevolezza sui suoi elementi e le minacce?
Se tu inizi a frequentare la natura, te ne innamori. E solitamente se ti innamori di qualcosa o di qualcuno non lo vuoi rovinare. Il gioco è molto facile. Frequentando la natura, che può essere la montagna, spazi confinati, i mari, i deserti, si ha l’occasione di vedere ed essere a contatto con qualcosa di cui si parla tanto – la conservazione, i cambiamenti climatici. Ma se vedi queste cose, se riesci a constatarle attraverso il giudizio e l’esperienza personale, questo vale più di mille parole spese a cercare di spiegare cosa sta succedendo. Per lo meno è stato il mio processo. Si sa che i ghiacciai stanno scomparendo, ma girando per il mondo e sulle Alpi ti accorgi che in dieci anni un ghiacciaio si può abbassare anche di 200 metri di altezza, allora ne rimani molto colpito. Ti rendi conto che siamo appesi un filo.
Spesso però c’è una paura nei confronti della montagna, spesso è vista come un luogo di grande fatica. Ma non è così, la montagna si può praticare in diversi di modi, ognuno al proprio livello. C’è veramente una montagna per tutti. E una delle poche cose che ha portato questa pandemia al mondo della montagna è l’avvicinamento di persone che prima non la conoscevano e ora iniziano ad apprezzarla. Poi è chiaro che ci deve essere un passaggio culturale perché spesso quando non conosci qualcosa non sai come affrontarla. Ed è avvenuto principalmente la scorsa estate dove la montagna ha vissuto, economicamente parlando, numeri record. Ma si vedevano persone non preparate, pesci fuor d’acqua. Ma è stata una grande occasione.
Esiste secondo lei un equilibrio tra conservazione e turismo? Può la montagna essere vissuta come stile di vita e non solo come meta o parco giochi?
Secondo me sì, ma ci si deve impegnare. Si devono cambiare delle politiche, visto che la montagna non è mai stata troppo presa in considerazione. Ma io non vedo la montagna del turismo degli impianti da sci, di cui si è parlato molto. Se la gente vuole stare più lontana dalle città e vivere nella natura, bisogna dargli l’occasione. Ci sarebbero alcune località di montagna che potrebbero lavorare su quello, per creare un afflusso costante di persone, visto che ci sono alcuni villaggi alpini che soffrono di spopolamento e pur essendo località di montagna bellissime non vivono del turismo di massa. Punterei su di loro per far vivere alle persone la montagna con una quotidianità come la si potrebbe vivere altrove. Beneficiando di una qualità della vita migliore. Non è rendere la montagna cittadina, ma dare la possibilità alla montagna, salvaguardandola.
Nel nostro mondo il 60 per cento delle acque potabili arrivano dai territori di montagna. L’acqua è una grande risorsa, molto importante che a breve sarà valutata più di qualsiasi altro metallo prezioso. È in questa direzione che dobbiamo andare. Vanno adottate strategie che tendono a salvaguardare la montagna in genere, applicando dunque un turismo differente. Quando mancherà l’acqua, il problema non sarà l’acqua da sparare nei cannoni per fare la neve programmata, il problema sarà l’acqua da bere, per coltivare. E noi che pensiamo sempre all’Africa, ma le cose cambieranno anche qui prima o poi. Bisogna essere lungimiranti e spesso per i grandi problemi non riusciamo ad esserlo. Non basta parlarne poi bisogna anche fare qualcosa.
Come ha visto cambiare l’ambiente e soprattutto questa risorsa, l’acqua, in montagna a causa dei cambiamenti climatici?
L’effetto devastante in alta montagna sono soprattutto le temperature. Non ci sono inverni rigidi, per quanto a noi possano invece sembrare. Poi ci sono meno precipitazioni e meno precipitazioni nevose significa avere un bacino idrico differente quando c’è lo scioglimento delle nevi in primavera. In realtà le precipitazioni ci sono, e la quantità di neve che cade per assurdo è quasi la stessa, ma avvengono in un periodo completamente sbagliato. Prima avvenivano in autunno, ora in primavera. Ma la neve della primavera è destinata a sciogliersi molto in fretta e quindi non subisce la trasformazione in nevato e in ghiaccio. Poi nel lavoro nell’alpinismo vedi che la montagna inizia proprio a sgretolarsi per le temperature. Questo è un cambiamento che pone l’alpinista all’imprevedibilità degli incidenti. Ci sono incidenti per cadute e crolli di rocce che una volta erano impensabili, ma che ora per le alte temperature sono sempre più frequenti. Ci sono ad esempio anche delle scalate che prima si facevano tutto l’anno, ora solo d’inverno, perché d’estate sono diventate troppo pericolose. I messaggi sono tanti.
La Valle d’Aosta è una regione di montagna, dove l’acqua circola in modo diverso oltre ad essere in forma diversa, quindi è una regione dove c’è un’abbondanza attraverso torrenti e fiumi, ma può esserci anche tanta siccità in alta montagna. Ci sono stati dei periodi, ad esempio quattro anni fa, dove si doveva fare attenzione agli acquedotti perché la risorsa dell’acqua stava diminuendo in modo preoccupante. Questo potrebbe far riflettere. Uno potrebbe dire, ma come manca l’acqua in montagna? Sì. Manca l’acqua in montagna.
Questo è il motivo per cui ho sposato Amref. Amref dice l’acqua è un bene prezioso e proteggendo l’ambiente si può garantire che l’acqua arrivi alle persone, soprattutto chi non ce l’ha. È un meccanismo in cui uomo e natura sono strettamente correlati e legati assieme.
Qual è la sua storia con Amref?
Tutti soffriamo un po’ di mal d’Africa. L’Africa l’ho vissuta di più attraverso i miei viaggi in montagna, sul Kilimangiaro, sul Kenya, dove però ti confronti anche a una popolazione che spesso è in difficoltà. Con Amref si è messo di mezzo in realtà Giovanni Soldini che mi ha coinvolto. Mi ha colpito il concetto per cui di fronte al problema dell’acqua e al problema delle risorse, per cui loro hanno molto combattuto negli ultimi anni, si cerca di lavorare sul terreno, per creare le condizioni per coinvolgere le comunità a risolvere il problema. Alla fine se non crei un sistema che risolve il problema sul territorio, il problema persisterà. E questo è un atteggiamento corretto per attuare una trasformazione. Tra queste soluzioni c’è anche la salvaguardia dell’ambiente che messo insieme a tutto mi ha coinvolto profondamente. Sono fattori che si sono uniti.
Al momento stiamo cercando di attuare campagne di sensibilizzazione alle persone. L’idea era quella di intraprendere anche azioni sul territorio africano, ma con la pandemia è difficile, con l’obiettivo di andare a vivere la situazione dove è più critica per poterla vivere io stesso, così da portare un messaggio veritiero e originale e non falsato come può apparire. Perché alla fine se non vai e non tocchi non è la stessa cosa. Quel toccare con mano è perché se tu vivi quella situazione, quella criticità poi la fai tua.
Come in montagna che capisci che sta crollando, se vai in Africa il problema lo fai tuo e riesci poi a trasmetterlo. È difficile comunque dire alle persone di andare a salvare qualcuno “lontano”, mentre spesso si pensa di salvare noi stessi, qui. Ma le cose sono diverse. Le loro criticità non sono le nostre criticità. In territorio africano, come tutti i territori secchi, un violento temporale farebbe morti, perché il terreno non è più permeabile. Noi l’acqua del rubinetto la apriamo, ce l’abbiamo e spesso la beviamo. Loro non hanno proprio l’acqua. C’è una grande differenza.
Quale dovrebbe essere quindi il nostro approccio?
Dovremmo avere il coraggio di guardarci allo specchio e capire cosa vogliamo. Il termine che dovremmo fare nostro è che tutti siamo un po’ ipocriti ambientalisti. Siamo tutti responsabili. Dal momento che io mi vesto e indosso qualcosa c’è stata una produzione, che ha portato via dell’acqua da qualche parte. Dovremmo usare il giusto e non il superfluo. Non farci mancare nulla sì, ma togliere l’eccesso.
E non perché dobbiamo salvare il mondo. Dobbiamo salvare noi stessi. Il mondo, la natura, si adatta, si è sempre adattata. Noi siamo una delle tante specie che ci sono state e che ci saranno dopo di noi. Dobbiamo quindi fare attenzione a pensare che l’uomo salverà il mondo. È sempre un po’ quell’atteggiamento di prepotenza o di pensiero di potere assoluto sulle cose e sulle persone spesso. No, noi dobbiamo salvare noi stessi. Per questo è importante il nostro approccio verso la natura.
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