La democrazia di Hong Kong è a rischio. In pericolo perché limitata ad ogni curva. Da qualche settimana è anche ufficialmente sospesa. Nel pomeriggio del 31 luglio Carrie Lam, governatrice scelta da Pechino di Hong Kong, ha annunciato che le elezioni per il Consiglio legislativo del 6 settembre, il parlamento locale, sono stati rinviate di un anno. La ragione ufficiale addotta dalla leader orientale, che ha invocato i poteri di emergenza, è il rischio sanitario, visto che l’ex colonia britannica sta vivendo la più grave ondata di contagi dall’inizio della pandemia di coronavirus.
Beijing Loyalist Carrie Lam staged a grand presser to mislead the foreign media: the election is de facto CALLED OFF, not postponed. National People Congress might step in and decide on the formation of the “provisional legislature” by appointing legislators in favour to Beijing. pic.twitter.com/W61u6qG0Fu
Dietro l’allarme sanitario di Hong Kong ci sono ombre politiche
Alle elezioni per il Legislative council, l’opposizione democratica e anti-Pechino, contraria alle strategie politiche della Lam, aveva portato ai seggi 610mila cittadini per le primarie non ufficiali, sfidando la nuova Legge sulla sicurezza nazionale. Questa decisione di rinviare le elezioni ha profonde implicazioni politiche, visto che le la tornata elettorale vedeva come favorita proprio l’opposizione democratica, che per la prima volta nella storia di Hong Kong avrebbe potuto conquistare la maggioranza parlamentare, usandola poi per ostacolare l’azione del governo.
La mano di Pechino sull’ex colonia britannica
Ora Pechino ha un anno per portare avanti la “stabilizzazione” della città cominciata con l’introduzione della nuova legge sulla sicurezza nazionale, senza il rischio di una disfatta elettorale e con la prospettiva di istituzioni locali tutte dalla sua parte. La norma punisce infatti gli atti di sovversione, secessione, terrorismo e collusione con le forze straniere compiuti nell’ex colonia britannica.
“Stiamo affrontando una situazione grave, questa è la decisione più difficile che ho preso negli ultimi sette mesi”, ha affermato Carrie Lam nel corso di una conferenza stampa, spiegando che la scelta è appoggiata, non a caso, dal governo centrale di Pechino. L’evoluzione dell’epidemia in città, parte di quella che in Asia chiamano la terza ondata del virus, è effettivamente allarmante. Il governo ha introdotto misure di contenimento, tra cui il divieto di assembramento, l’obbligo di mascherina anche all’esterno e la limitazione dell’orario dei ristoranti.
Sarebbe stato prudente confermare le elezioni a Hong Kong in queste circostanze?
Diversi esponenti del campo democratico, interessati a livello politico ma anche sociale a votare, hanno fatto notare che in altri paesi della zona interessati dalla stessa ondata della pandemia, come la Corea del Sud e Singapore, si è votato. Anche durante l’emergenza. Ma è soprattutto la scelta di rinviare di un anno che è destinata a alimentare i sospetti di scelta politica e infiammare la protesta: “Secondo le norme il voto può essere solo rinviato per 14 giorni – avevano scritto 22 parlamentari democratici – rimandarle oltre significa scatenare una crisi istituzionale nella città”.
Questa situazione apre una serie di questioni legali, in cui il governo cinese potrebbe inserirsi. La principale è se l’attuale consiglio legislativo, dominato da forze pro-Pechino, sarà autorizzato formalmente a restare in carica per un altro anno.
Dalla rivolta degli ombrelli alla Legge sulla sicurezza
Proprio a fine luglio il comitato elettorale aveva respinto le candidature al parlamento di 12 esponenti del campo democratico, tra cui Joshua Wong, fondatore del gruppo di attivisti studenteschi Scholarism, e quattro parlamentari uscenti. Le motivazioni citate vanno dall’opposizione “di principio” nei confronti della nuova legge sulla sicurezza, fino al progetto di attuare, una volta eletti, azioni di boicottaggio delle norme del governo per ottenere concessioni politiche. Pechino e la Lam si aspettano, e pretendono, che l’opposizione non faccia l’opposizione.
I timori che la nuova normativa venga usata per silenziare ogni opposizione appaiono quindi sempre più fondati, a giudicare dalle dichiarazioni di un portavoce del governo. I candidati alle elezioni, ha spiegato per motivare le esclusioni, non possono obiettare in principio con la norma, sollecitare l’intervento di governi stranieri, promuovere l’autodeterminazione di Hong Kong, né esprimere l’intenzione, se eletti, di respingere le leggi o il budget proposto dal governo.
A Hong Kong non ci si può opporre alla Cina
Tra fine luglio e inizio agosto quattro attivisti tra i 16 e 21 anni, esponenti del gruppo pro indipendenza Scholarism, sono stati arrestati dalla nuova unità speciale della polizia di Hong Kong dedicata all’applicazione della Legge sulla sicurezza nazionale.
Purtroppo la situazione sembra peggiorare di giorno in giorno. Pechino ha ordinato l’arresto di altre sei persone, tra cui l’attivista per la democrazia Nathan Law, ricercato dalla polizia di Hong Kong per presunta violazione della legge sulla sicurezza. Secondo quanto riferito dall’emittente televisiva di stato cinese Cctv, Law e altri cinque, l’ex impiegato al consolato britannico Simon Cheng e gli attivisti Ray Wong, Samuel Chu, Wayne Chan e Honcques Laus, sono sospettati di incitamento alla secessione e collusione con forze straniere ai sensi della nuova legge. A giugno, a Cheng è stato concesso l’asilo nel Regno Unito; a Joshua Wong in Germania.
L’attivista Nathan Law: “L’Italia difenda la democrazia”
Il 25 agosto davanti alla Farnesina a Roma, si è tenuta una protesta di Nathan Law, storico leader del movimento degli ombrelli di Hong Kong e ricercato per una presunta violazione alla nuova legge sulla sicurezza. “L’Italia difenda la democrazia prima che sia troppo tardi”. Questo l’appello di Law al ministro degli Esteri Luigi Di Maio che in quel momento stava ricevendo il suo omologo cinese Wang Yi. Quest’ultimo ha dichiarato: “Con Di Maio ci siamo confrontati su Hong Kong in uno spirito di rispetto. Gli ho spiegato il motivo della legge sulla sicurezza, ovvero combattere gli atti violenti”.
Il ministro italiano ha quindi aggiunto: “Insieme ai partner europei abbiamo sempre sottolineato come sia indispensabile preservare un ampio grado di autonomia e libertà per i cittadini di Hong Kong”.
[I have to admit, I have been living with a weary heart lately. Other than worrying for my own safety, I am more worried about my friends.]
Il clima politico di Hong Kong è paradossalmente sempre più simile a quello del resto della Cina. La libertà d’espressione si trasforma sempre più in un concetto astratto. Molte persone hanno cancellato dai propri social frasi pubblicate nel recente passato. Giornalisti, avvocati, ricercatori, e altre categorie di professionisti si chiedono se possano continuare a svolgere il loro lavoro come prima. Molte organizzazioni sociali o politiche sono state sciolte.
In questo contesto, Google ha dichiarato che non collaborerà con le autorità cinesi a Hong Kong e non risponderà più alle richieste di fornire dati personali dei propri utenti. I principali social network, con l’appoggio della stessa azienda americana, si erano dichiarati pronti a boicottare la nuova norma per proteggere la privacy dei propri iscritti. Le autorità non potranno più rivolgersi direttamente al colosso di Mountain View, ma saranno costrette a seguire un complicato iter previsto da un trattato siglato con gli Stati Uniti secondo il quale a gestire le domande deve essere il dipartimento di Giustizia americano: un processo che può richiedere settimane, se non mesi.
[Joshua Wong has encouraged a global boycott of Walt Disney Co's release "Mulan".] Disney is under fire for filming parts of "Mulan" in Xinjiang province, where over one million Uighurs have been detained in internment camps.https://t.co/Q4TPCvstzJ#BoycottMulanpic.twitter.com/jFwedSIGkr
Hong Kong contro Mulan: il nuovo film della Disney scatena le polemiche
L’ultimo capitolo di questo conflitto per i diritti e la libertà di espressione si è spostato al cinema. L’uscita del nuovo film Mulan, prodotto dalla Disney, è stata contestata dagli attivisti democratici di Hong Kong, dopo che l’attrice protagonista, Liu Yifei, ha difeso l’operato della polizia dell’ex colonia britannica durante le proteste del 2019. Joshua Wong, ha invitato a boicottare il film, dando il via a un movimento che coinvolge anche Thailandia e Taiwan, mentre l’hashtag #BoycottMulan è diventato virale. Tra i motivi del boicottaggio c’è anche l’aver girato alcune scene del film nella regione cinese dello Xinjiang, dove da anni la minoranza etnica uigura è detenuta in campi di prigionia.
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