Un gruppo di studenti universitari ha raggiunto la città di Kaifeng l’8 novembre dopo cinque ore di viaggio in sella a biciclette in sharing
Hong Kong resiste ancora, ma chiede aiuto al mondo per riconquistare la sua libertà
Da 15 settimane la popolazione di Hong Kong si ribella all’erosione dei propri diritti civili e politici. Il 15 settembre il centro si è trasformato in una zona di guerriglia. Un racconto delle urla di rabbia e degli scenari futuri delle proteste.
in collaborazione con Marco Simoncelli
L’aria è pesante. L’umidità opprime. Il cielo che sovrasta gli imponenti grattaceli della Hong Kong Island si è ingrigito all’improvviso e ti schiaccia al suolo. Sotto una barriera di ombrelli, uniti assieme come una formazione di fanteria dell’impero romano, un gruppo di giovani ragazzi vestiti di nero se ne sta accovacciato a pochi centimetri dall’asfalto scabro e inzuppato dal liquido blu appena sparato dai cannoni ad acqua della polizia antisommossa cinese.
Dietro la maschera antigas che le copre quasi completamente il volto, la ventiduenne Hoi urla ai compagni di spostarsi in fretta. A pochi metri sono piovuti dei proiettili di gas lacrimogeno. La testuggine si apre, un ragazzo allontana con un calcio un proiettile e il gruppo si ritira dietro uno spartitraffico di cemento mentre l’aria tossica si sparge offuscando l’aria, fra urla ed esplosioni. “Dobbiamo mostrare al governo che non ci fermeremo. Non vogliamo che i tiranni cinesi distruggano l’anima della nostra città. Forse qualcuno ha voltato pagina e si è arreso, ma noi no”, esclama Hoi osservando un gruppo di paramedici volontari che soccorrono un suo compagno.
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Le fa eco il quasi coetaneo Tung che urla: “Quei cani di poliziotti arrestano e maltrattano la gente che protesta pacificamente. Ci impediscono di esprimerci. Vanno fermati!”. Da dietro la moderna “trincea” appena sotto un cavalcavia i manifestanti lanciano mattoni, molotov improvvisate e provano ad assaltare la sede dell’esercito cinese accanto ai palazzi istituzionali del Central government complex.
Lo squilibro tra le forze in campo è però troppo evidente. Dopo qualche ora l’esercito del popolo di Hong Kong composto da qualche migliaio di contestatori pro-democrazia è in rotta, inseguito dalle truppe antisommossa della polizia governativa filo-cinese. Ancora qualche schermaglia in diverse zone della città in linea col motto “Be water” (sii acqua) che il movimento ha ripreso dall’idolo del cinema Bruce Lee. Ancora barricate improvvisate e assalti alle stazioni metropolitane di Admiralty e Wan Chai. La lotta si trasforma in caccia all’uomo con i giovani manifestanti che si affrettano a nascondersi, disfandosi della loro attrezzatura magari tentando di confondersi tra i passanti, mentre la polizia si dà al rastrellamento con controlli violenti e indiscriminati. Poi tutto finisce e Hong Kong, ricco polo economico asiatico da più di 7 milioni di abitanti, torna a pulsare.
Perché si protesta ancora ad Hong Kong
Eppure la protesta di domenica 15 settembre era iniziata come una marcia molto pacifica, in linea con il resto delle iniziative di dissenso organizzate nell’ex-colonia britannica da quindici settimane a questa parte, come flash-mob in luoghi simbolici e installazioni artistiche e commemorative. Nonostante il governo della città guidato da Carrie Lam avesse vietato qualsiasi manifestazione per domenica, nel primo pomeriggio un fiume umano di hongkonghesi composto anche da anziani, donne e bambini si è riversato nelle strade sfilando pacificamente sull’ampia Hennessy Road armato di mascherine e cartelli, cantando a squarciagola “Glory to Hong Kong”, l’inno delle proteste, e slogan come “Stand with Hong Kong” e “Five demands, not one less” in riferimento alle cinque richieste avanzate dal movimento.
A questo proposito dieci giorni fa l’esecutivo di Lam ha fatto alcune concessioni come il ritiro del progetto di legge sull’estradizione che avrebbe permesso di trasferire in Cina processi per alcuni reati commessi nella città e aveva dato il via alla nuova ondata di proteste. Ma oramai non basta più, il movimento pro-democratico chiede anche un’inchiesta indipendente sull’operato della polizia durante le proteste, la liberazione dei dissidenti arrestati e una generale revisione del profilo istituzionale e dei rapporti con la Cina.
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A Hong Kong si protesta perché, da quando l’ex-colonia britannica è stata “restituita” alla Cina nel 1997, i cittadini sono preoccupati del graduale degrado dei loro diritti civili e politici. La metropoli, pur essendo culturalmente strettamente legata alla Cina continentale, grazie a un sistema economico e politico liberale e alla common law giuridica ha vissuto uno sviluppo diverso creandosi una propria identità.
Da diverse settimane il clima è diventato più teso e violento e il divario tra governo e manifestanti appare insanabile. “Non possiamo scendere a compromessi con chi tenta lentamente di conquistarci eliminando i nostri diritti”, afferma Flash, un attivista che vuole restare anonimo seduto in un cortile della Hong Kong University. La dura repressione delle forze di polizia delle ultime settimane non ha che causato diversi feriti e portato a centinaia di arresti che hanno alimentato astio e diffidenza verso le istituzioni. Il governo di Pechino, che praticamente controlla quello locale, è messo in difficoltà da questo dissenso che provoca dimostrazioni assolutamente uniche nel panorama cinese. Il partito tenta in tutti i modi di evitare il diffondersi delle notizie nel resto del Paese pubblicando resoconti manipolati su ciò che accade, mentre resta in attesa che il focolaio si estingua col tempo.
Il futuro delle proteste a Hong Kong
È proprio questo che temono gli organizzatori delle proteste. Non è un caso che cerchino di ottenere appoggio all’estero lanciando appelli di aiuto a Stati Uniti e Regno Unito. “Ci stiamo rivolgendo alle potenze straniere perché è chiaro che non potremo resistere all’infinito”, spiega Flash. “Non ci sono vie d’uscita in una situazione del genere. Bisogna lottare fino alla fine coinvolgendo il maggior numero di persone per fare pressione”, conclude. Per ora, nonostante i recenti viaggi negli Stati Uniti e in Europa di alcuni degli attivisti più influenti come Joshua Wong, il movimento ha ottenuto solo dichiarazioni di sostegno di alcuni leader politici, ma di scarsa efficacia, che non hanno fatto che irritare ulteriormente la Repubblica popolare cinese.
Vedendo come dopo la guerriglia del 15 settembre e delle settimane passate, l’attività economica è ripartita tranquillamente fra i palazzi, le banche e le griffe del lusso di Hong Kong viene da chiedersi se a questa protesta non manchi qualcosa. Oltre a chiedere aiuto al mondo esterno, il movimento avrebbe bisogno di rafforzarsi in città, indicendo scioperi generali e tentando di coinvolgere anche i cinesi oltre confine per quanto possibile. Cosa accadrebbe se uno dei più importanti centri finanziari del mondo restasse davvero paralizzato? È una domanda che i manifestanti devono porsi.
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