Un gruppo di studenti universitari ha raggiunto la città di Kaifeng l’8 novembre dopo cinque ore di viaggio in sella a biciclette in sharing
Il crepuscolo dei pigmei
Il mondo di uno degli ultimi popoli di cacciatori-raccoglitori del continente africano è minacciato da deforestazione, land grabbing e “riserve-fortezza”.
Le regioni più settentrionali della Repubblica del Congo sono un oceano di foresta vergine. Partendo da Pokola, ultimo avamposto elettrificato e connesso telefonicamente nella regione del Sangha, bisogna percorrere centinaia di chilometri verso nordest per entrare nel Likouala. La strada segnata sulla mappa gps è solo una pista di terra rossa larga poco più di tre metri che si insinua nella muraglia verde.
Poi l’esile linea scompare dal display anche se la pista in qualche modo continua. La geolocalizzazione segna un punto nello schermo completamente verde molto a nord di una località chiamata Minganga. È in questa zona, da qualche parte nella foresta non lontano dalla pista, che, secondo alcune indicazioni, si trova un insediamento di pigmei Aka-Mbenzelé chiamato Longa.
Le regioni più settentrionali della Repubblica del Congo sono un oceano di foresta vergine
Bisogna proseguire un po’ a piedi per raggiungerli addentrandosi nella foresta, uno sterminato tempio verde fatto di liane, foglie abnormi e alberi alti oltre 30 metri.
Il mondo degli mbenzelé
La foresta si apre in una piccola radura. L’insediamento di Longa emerge dal sottobosco. È formato da casupole di paglia e fango e, in parte, di capanne di foglie, le tipiche mongulu, che sono provvisorie perché i pigmei, tra gli ultimi popoli nomadi di cacciatori-raccoglitori del continente africano, creano accampamenti provvisori nei quali si stabiliscono a seconda delle stagioni seguendo la tradizione millenaria del molongo.
Nel villaggio alcune donne anziane dai volti tatuati sono intente a costruire cesti, altre fanno cuocere grossi bruchi che in questo periodo cadono dagli alberi della zona. Un gruppo di giovani emerge dall’universo verde con del miele appena raccolto da un albero, mentre due cacciatori esperti con in braccio un vecchio fucile a pallettoni si preparano ad una battuta di caccia notturna. La sera si suonano i tamburi e le donne intonano i tipici canti polifonici con cui invocano le divinità della foresta. Ovunque tutto procede lento e costante, scandito dal suono della natura.
Questa etnia, divisa in grandi sotto-gruppi come gli Aka, i Baka e i Bambuti, vive nelle foreste tropicali dell’Africa centrale in un’ampia regione che attraversa il bacino del Congo fino alla regione dei Grandi laghi.
La caratteristica più evidente della cultura di questo popolo è il legame con la foresta che assume un carattere quasi simbiotico. La venerano e ne hanno una conoscenza formidabile. La loro sopravvivenza dipende dall’equilibrio con l’ecosistema in cui cacciano selvaggina, coltivano e raccolgono frutti e insetti. Hanno uno stile di vita schivo e anche per questo sono rimasti isolati per secoli.
Ai margini e incompresi
Durante l’ultimo secolo la cultura pigmea ha vissuto grossi sconvolgimenti e forti difficoltà di integrazione con la società in evoluzione del continente. Qualche segno del contatto con la “modernità” è visibile anche a Longa. Qua e là si notano oggetti in plastica, alcuni giovani indossano maglie di squadre di calcio europee e c’è chi usa torce o esibisce vecchi orologi malfunzionanti.
Non è la popolazione pigmea a diminuire. È la loro cultura che sta tramontando perché minacciata dal mondo esterno
“Non è la popolazione pigmea a diminuire. È la loro cultura che sta tramontando perché minacciata dal mondo esterno che li vuole inglobare cancellando le loro tradizioni”, racconta Sorel Eta, un etnologo congolese di etnia Bantu che studia da anni i pigmei Aka. Secondo uno studio statistico pubblicato nel 2016, la popolazione di pigmei in Africa centrale si aggirerebbe attorno alle 900mila persone. “Il più grande problema è l’emarginazione e il disprezzo sociale che hanno radici storiche e che la popolazione congolese non ha ancora superato”, continua Sorel riferendosi al antico rapporto di subordinazione che i pigmei hanno con i vicini bantu, i quali, più forti fisicamente, li sottomisero schiavizzandoli in epoca pre-coloniale. A ciò si aggiungono gli stereotipi che generalmente associano i loro costumi a un carattere primitivo.
La marginalizzazione sociale si è tradotta poi in negligenza e disinteresse politico. I pigmei non hanno accesso a servizi di base, non hanno rappresentanza politica. Una situazione confermata anche da un rapporto dell’Onu pubblicato nel 2019 in cui si afferma che gli autoctoni delle foreste del Congo-Brazzaville sono soggetti a “discriminazioni profonde, sistemiche ed estremamente radicate” e vengono ancora visti come “ostacoli allo sviluppo”.
Tutto questo nonostante nel 2011 il Congo abbia promulgato una legge per la tutela e promozione dei diritti dei popoli autoctoni e seguito nel 2015 da un articolo nella Costituzione per mettere in atto questo riconoscimento.
Da tempo ormai si parla di “sfratto su larga scala” dei pigmei dalle foreste e i loro insediamenti continuano a ridursi costringendoli a una vita stanziale ai margini dei centri a maggioranza bantu.
Justin Assomoyi, Responsabile della promozione dei popoli autoctoni al ministero della giustizia congolese ha detto a LifeGate che i rapporti sono ingannevoli e che al contrario “il governo sta mettendo in atto politiche di inclusione per i popoli autoctoni, ma deve allo stesso tempo cercare di sfruttare le enormi risorse di cui è ricco il Paese per i bisogni di crescita della sua economia”. Un tipo di corsa allo sviluppo che dunque non si fermerà.
Per questo Sorel è convinto che comunità come quella degli Mbenzelé di Longa stiano tramontando. “La cultura pigmea può dare qualcosa alla società con la sua conoscenza inestimabile della foresta, ma l’umanità è cieca. Distrugge le parti di mondo che la fanno sopravvivere assieme ai custodi che le abitano e saprebbero come salvarle”.
Chi incombe sulla foresta e i pigmei?
La foresta tropicale del bacino del Congo è il secondo polmone verde del pianeta dopo l’Amazzonia, si estende per 240 milioni di ettari e contribuisce ad assorbire gran parte delle emissioni mondiali di CO2 (0,62 miliardi di tonnellate l’anno, secondo i dati della Fao). È tra i più importanti santuari naturali del pianeta con oltre 10mila tipi di piante e migliaia di specie animali.
La foresta tropicale del bacino del Congo è il secondo polmone verde del pianeta dopo l’Amazzonia
I dati allarmanti sono denunciati dai numerosi rapporti di Greenpeace, e da studi recenti sulla vulnerabilità della foresta pubblicati dalla rivista Nature. Fecero scalpore le immagini satellitari della Nasa del 2019 in cui si vedevano i polmoni verdi del pianeta andare a fuoco. Tutto questo in un continente dove scompaiono 4 milioni di ettari di foreste ogni anno.
In Africa centrale la deforestazione è innanzitutto dovuta agli incendi provocati dall’espansione agricola di sussistenza e dal disboscamento per produrre il carbone utilizzato nelle abitazioni di una popolazione in costante aumento. In Congo-Brazzaville le regioni centrali del Pool sono particolarmente colpite da questo fenomeno.
Poi c’è l’accaparramento delle terre per lo sfruttamento delle risorse. Il land grabbing colpisce oltre 30 milioni di ettari in Africa, stando all’ultimo rapporto Focsiv sul tema. La Repubblica del Congo, oltre all’industria petrolifera che opera sulle sue coste, ha risorse forestali di legno pregiato molto attraenti, il sottosuolo è ricco di ricchezze minerarie come oro e ferro e la terra è fertile e non sfruttata (solo il 4 per cento delle terre agricole è coltivato).
Così, sono arrivati investimenti esterni e le autorità congolesi hanno dato concessioni di sfruttamento senza verifiche sull’impatto ambientale e soprattutto senza interpellare la popolazione locale.
Le autorità congolesi hanno dato concessioni di sfruttamento senza verifiche sull’impatto ambientale e soprattutto senza interpellare la popolazione locale
Non si hanno aggiornamenti per quantificare il fenomeno perché i contratti e gli accordi sono secretati dal governo di Brazzaville. L’archivio internazionale di Land Matrix individua solo le più grandi concessioni. Di sicuro c’è che nel 2018 la Repubblica del Congo era il quarto Stato del continente ad aver ceduto più terra, circa 2,3 milioni di ettari.
A seguire ci sono i danni sempre più visibili in alcune regioni e le ultime notizie non fanno ben sperare: dalle mire di sfruttamento petrolifero della Couvette Centrale, nella più grande torbiera tropicale del mondo scoperta nel 2017, fino ai primi disastri ecologici causati da miniere illegali segnalati di recente nella regione del Sangha dove presto partiranno nuovi grandi progetti di estrazione del ferro.
Il lato oscuro della conservazione
Nonostante tutto ciò e malgrado il Congo-Brazzaville abbia perso più di 3.500 chilometri quadrati di foresta primaria nell’ultimo decennio, il suo enorme patrimonio forestale è ancora in buone condizioni secondo i dati di Global forest watch. Per questo è divenuto un Paese su cui il mondo della conservazione naturale ha deciso di puntare.
Negli anni sono aumentate aree protette, oggi sono pari al 37 per cento del territorio nazionale (secondo il World database on protected areas, Wdpa), così come gli attori a cui il governo congolese ha affidato la gestione e la conservazione di flora e fauna. Wwf, African Parks e Wildlife conservation society sono tra i big che da anni hanno progetti di protezione in ampie zone del Paese.
Paradossalmente proprio le misure di salvaguardia della natura si sono trasformate in un’ulteriore minaccia per i pigmei il cui stile di vita è entrato in conflitto con un approccio di conservazione radicale ed escludente.
Nella Sangha le comunità di pigmei baka vivono da anni l’insieme di tutti questi fenomeni e l’atmosfera è molto diversa da quella vissuta dagli mbenzelé di Longa. In un agglomerato di capanne ai margini di Sembé, un cittadina di qualche migliaio d’abitanti, centinaia di baka si sono ormai sedentarizzati. Coltivano e lavorano nelle terre di “patron” bantu o sono impiegati in qualche cantiere.
Io sono nata e cresciuta nella foresta. Siamo sempre stati liberi di entrare per procurarci il cibo. Poi le cose hanno iniziato a cambiare e tutto è precipitato con i guardia-parco
“Io sono nata e cresciuta nella foresta. Siamo sempre stati liberi di entrare per procurarci il cibo. Poi le cose hanno iniziato a cambiare e tutto è precipitato con i guardia-parco”. La 36enne Ndiky sta preparando un pasto ai suoi figli mentre racconta. “Un giorno hanno attaccato il nostro villaggio accusandoci di essere entrati irregolarmente nella foresta per cacciare. Hanno arrestato e torturato mio marito e altri uomini. Ci hanno messi tutti in ginocchio, minacciandoci con bastoni e insultandoci”. La donna racconta di come i raid punitivi si siano ripetuti e delle circostanze in cui suo figlio neonato le sia caduto rompendosi un arto che ha causato una disabilità permanente.
La giovane donna è una delle centinaia di casi di vittime di violenze e abusi commessi dalle eco-guardie ai danni delle comunità baka di questa regione. Violazioni emerse di recente grazie alle indagini di Survival International rese pubbliche nel 2016 e successivamente confermate da inchieste indipendenti di ong, Onu e Ue. Il Wwf è stato accusato di aver finanziato eco-guardie che hanno commesso gravi abusi ai danni dei pigmei oltre ad aver ignorato i loro diritti sulle terre ancestrali all’interno del programma di realizzazione di una grande area protetta da 1500 km2 chiamata Messok Dja, parte dell’ampio Tridom Project che riguarda anche Gabon e Camerun dove sono stati registrati ulteriori abusi.
Stando ai racconti della comunità baka di Sembé, oggi la situazione che riguarda il Wwf è migliorata, i casi sono cessati dopo lo scoppio del caso mediatico e la sospensione dei finanziamenti dell’Ue nel giugno 2020 e degli Stati Uniti pochi mesi dopo.
Gli abusi continuano
In ogni caso la riserva Messok Dja verrà realizzata, come riferito dal governo, e il clima è tutt’altro che disteso quando si parla dei guardia-parco e dell’enorme riserva di Odzala-Kokoua gestita dai sudafricani dell’African Parks dal 2010 e situata proprio nel Sangha.
Secondo Gilbert, tra i pochi testimoni che hanno voglia di parlare pur avendo paura di eventuali ritorsioni, le eco-guardie responsabili della zona cuscinetto attorno alla riserva hanno dato fuoco ad alcuni accampamenti nella foresta e spesso si accaniscono con i pigmei. “È una caccia alle streghe. Ora non possiamo più entrare nella foresta serenamente. Io stesso sono finito nei guai solo perché uscivo dalla foresta dopo aver raccolto del miele. Non siamo bracconieri. Cacciamo solo per sopravvivere”.
Il fatto che gli abusi stiano continuando attorno alla riserva gestita da African Parks è confermato anche da Fiore Longo, antropologa e attivista di Survival che si è occupata delle indagini in Congo. “È normale che persista, perché il modello di conservazione è sbagliato. Punta alla militarizzazione della natura e al business sulle ‘aree-fortezza’. A farne le spese sono i popoli vulnerabili che vengono cacciati dalle loro terre”. Per l’attivista la conservazione della natura resta fondamentale per la lotta contro la crisi climatica in corso, ma “va cambiato completamente questo approccio razzista secondo il quale i popoli indigeni sono un ostacolo. Devono essere coinvolti, perché è la loro terra e se ne sono occupati per millenni”.
Per noi il concetto di ‘proprietario’ della foresta era sconosciuto
I baka di Sembé stanno perdendo il diritto d’essere i custodi del loro mondo ed è probabile che accada per molte altre comunità pigmee. Gilbert lo sente: “Prima i taglialegna e i proprietari terrieri bantu, poi i minatori cinesi e i coltivatori di palma da olio. Ora le eco-guardie. Tutti a esigere la foresta, ma per noi il concetto di ‘proprietario’ della foresta era sconosciuto”. Per questo gli è difficile pensare che la foresta sarà proibita ai suoi figli e che forse segreti dei pigmei svaniranno con lui.
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