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L’uomo è per sua natura “animale inquieto”, tuttavia occorre distinguere la falsa inquietudine, che proviene dall’esterno, dall’inquietudine autentica che nasce, invece, nell’anima e di essa si alimenta.
“Inquietudine che non è quella di altri tempi, in
cui la vita era ricca di avventure, poiché è
un’inquietudine che sopportiamo, nella quale ci sentiamo
reclusi.
È un’inquietudine che ci viene da fuori, non
un’attività liberatrice che scaturisce da dentro. La cosa
più umiliante per un essere umano è sentirsi portato,
trascinato come se gli si concedesse a malapena un’opzione o fosse
a stento possibile scegliere, senza poter prendere alcuna decisione
perché qualcun altro, che non si prende la briga di
consultarlo, la sta già prendendo al suo posto.
Tale passività si manifesta nella più tremenda
solitudine. Oltre a sentirci inquieti ci sentiamo anche sottomessi
a una “solitudine senza tregua”. Ma con la solitudine succede lo
stesso che con l’inquietudine: anche la solitudine è propria
della vita di sempre, anch’essa sta nel fondo della vita umana. La
solitudine dell’epoca di crisi è tuttavia ben diversa dalla
solitudine dell’uomo sveglio, dato che non è dovuta a una
maggiore lucidità e può perfino racchiudere una
maggiore confusione. Si tratta di una solitudine provocata
dall’inquietudine, poiché non sappiamo, né possiamo
essere in qualche modo certi di alcunché. Ci ritroviamo
così soli perché siamo inquieti e
confusi”.
Questo nitido passo di Maria
Zambrano, allieva di Ortega y Gasset
e figura di straordinaria originalità nel panorama
filosofico del Novecento, tratto dal suo: “Verso un sapere
dell’anima”, evidenzia a tutto tondo come l’inquietudine, e la
connessa solitudine, abiti da sempre l’uomo come originario segno
dell’anima.
Tuttavia, Zambrano mostra anche come ci sia una forma deviata,
perversa di inquietudine, cioè quella che, originata
dall’esterno, dalle inautentiche e disorientanti voci del mondo, ci
trascina acriticamente nella vita, senza che si possa scegliere o
articolare un discorso di senso.
L’uomo della crisi, tutto produttività,
efficienza, funzionalità e Mercato, è
inquieto, poiché il campo esistenziale delle
possibilità “tecnologiche” che gli sono offerte è
talmente vasto da generare impotenza e smarrimento.
Non si può, infatti, rinunciare a a per non essere
estromessi dalla fittizia comunità creata dal Mercato, e,
nel contempo, ci si sente inquieti perché, da un lato,
è strutturalmente impossibile scegliere, dove la scelta, in
nome del tutto o niente, viene negata, e, dall’altro, la ricerca
del “di più”, rispetto alla sicurezza di ciò che si
ha, è rischiosa e, quindi, potrebbe scardinare quella
stessa sicurezza, in un perverso, lacerante circolo vizioso di
ansia – insoddisfazione – inquietudine.
C’è, però, anche una forma autentica di
inquietudine, oltre a quella mistificante indotta dall’esterno, ed
è quella che abita l’anima già nella sua fase
aurorale: quell’ardente amore per
l’infinito, fissato per sempre nelle vibranti pagine
di Pascal, che
sarà oggetto del nostro prossimo intervento.
Immagine:
Inquietudine, di Ornella Bernazzani (aprile 2001, Galleria
Alpha Centauri, Parma)
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