Nella regione del Sahel, sconvolta da conflitti inter comunitari e dai gruppi jihadisti, 29 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Il modello migratorio dell’Australia è vergognoso, vecchio e costoso. L’accusa dell’attivista Ian Rintoul
Vecchie e nuove discriminazioni. La politica migratoria dell’Australia, con uno sguardo alla Nuova Zelanda. Intervista allo storico attivista Ian Rintoul.
“Il modello australiano è scioccante per gli abusi dei diritti umani che ha provocato. Nessun altro governo dovrebbe pensare di seguirlo”. A parlare da Sidney è Ian Rintoul, storico attivista e fondatore della Rac (Refugee action coalition). A 66 anni, dei quali una quarantina trascorsi a battersi per i diritti dei profughi, Rintoul può raccontare gli effetti drammatici delle politiche migratorie che i sovranisti italiani vorrebbero emulare nel Mediterraneo e in Europa.
Il cosiddetto modello australiano di respingimento in mare e detenzione in centri offshore, lontani dalla terraferma e in paesi terzi pagati da Camberra, è quasi vecchio di vent’anni. E ha già condotto a crisi umanitarie e ingenti esborsi da parte dello Stato. A inaugurarlo nel 2001 è stato il primo ministro di centro-destra John Howard con la ‘Pacific solution’. Da allora migliaia di individui provenienti soprattutto dall’Asia sono stati rinchiusi su alcune isole del Pacifico: Manus island nella Papua Nuova Guinea, la repubblica indipendente di Nauru e l’australiana Christmas island.
Pur fuggendo da guerre, persecuzioni ed estrema povertà, sono sempre stati trattati come migranti irregolari e non da richiedenti asilo politico. Nel 2008 un nuovo governo di centro-sinistra, guidato da Kevin Rudd, ha cercato di alleggerire il sistema di respingimento e detenzione, ma quattro anni dopo la sua compagna del partito laburista, Julia Gillard, lo ha riproposto. Nel successivo balletto fra Liberal e Labor, tutti i governi l’hanno mantenuto, anche quello di un secondo Rudd e l’attuale esecutivo del conservatore Scott Morrison, in passato già ministro dell’Immigrazione e della Protezione delle frontiere.
Australia e Nuova Zelanda, fra propaganda xenofoba e retaggi razzisti
“I politici australiani accusano i profughi di occupare posti di lavoro e pesare sul welfare, ma in realtà non è colpa loro se ci sono dei disoccupati e mancano servizi. Responsabile è chi governa”, spiega Rintoul. Semmai, sproporzionato è il costo della deportazione e prigionia in Paesi terzi. Camberra ha elargito miliardi di dollari alle amministrazioni della Papua Nuova Guinea e di Nauru. Un milione sarebbe costato, a partire dal 2012, ogni prigioniero di Manus. Altri 55 milioni sono stati dati alla Cambogia per ricevere solo sei rifugiati, mentre sono falliti i negoziati con le Filippine e il Kyrgizistan.
In vista delle elezioni australiane (18 maggio) e di quelle del parlamento europeo (23-26 maggio), Ian Rintoul racconta nel dettaglio che cosa accade dall’altra parte del pianeta. Sono giorni tesi, ma anche di rinnovato fermento. Dopo l’attentato del 15 marzo scorso a Christchurch, nella vicina Nuova Zelanda, compiuto da un suprematista bianco australiano in due moschee, sono state promosse diverse manifestazioni. Rintoul, assieme ad altre decine di migliaia di cittadini e attivisti, ha marciato il 24 marzo a Auckland contro il razzismo e ha partecipato il 14 aprile al corteo di Sidney per chiudere i centri offshore. Questi campi sono contrari alla Convenzione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati, che prevede il diritto d’asilo per chi fugge da conflitti, rischi per l’incolumità della persona, ma anche situazioni di miseria.
“I prigionieri provengono da Iran, Afghanistan, Somalia, Sudan, Myanmar, Bangladesh, Pakistan, Iraq, Siria, India, Nepal”, continua il portavoce di Rac, che dai tempi della guerra in Vietnam non ha mai smesso di difendere il valore dell’accoglienza. “Sono traumatizzati e spesso malati. La campagna #kidsoffnauru, promossa da medici, ong, artisti e intellettuali locali, è riuscita a far liberare molti bambini con i loro famigliari”. Alcuni di loro soffrivano di una grave depressione, detta ‘sindrome da rassegnazione’. Attraverso le parole di Rintoul, ripercorriamo il processo che ha portato uno dei Paesi più ricchi ed estesi al mondo a chiudersi ai ‘boat people’ dell’era globalizzata. Vediamo similitudini e differenze fra Australia e Nuova Zelanda, dove sopravvivono i retaggi delle rispettive ‘White policy’ e del passato coloniale. Scopriamo nuovi razzismi, ma anche una società civile che non rinuncia a contrastarli.
Dal 2012 il modello australiano è stato riattivato. Ci spiega come?
È stato addirittura inasprito. Nel dicembre 2014 il cosiddetto ‘Legacy bill’ ha introdotto molti cambiamenti più restrittivi. Per esempio, ogni riferimento alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati è stato tolto dal ‘Migration act’ (la legge che regola l’immigrazione in Australia dal 1958, ndr). Tuttavia, dallo scorso febbraio un emendamento del ministero degli Interni, comunemente chiamato ‘Medevac bill’, permette ai profughi malati di essere trasferiti da Nauru e Manus in Australia. Circa 900 persone erano già state evacuate per ragioni mediche ancor prima che questo emendamento diventasse legge. È il risultato di una campagna di grande successo, #kiddsoffnauru, che ha permesso ai bambini e alle loro famiglie di lasciare le due isole negli ultimi mesi del 2018.
Quante persone rimangono imprigionate nei centri offshore?
In tutto 915 fra Nauru e Manus. In quest’ultima esistono tre campi di detenzione con un’assistenza medica molto limitata. In entrambe le isole si registrano delle crisi di salute mentale fra gli individui che sono lì da quasi sei anni.
E in quali condizioni si trovano i 900 trasferiti sulla terraferma?
La maggior parte vive nelle cosiddette ‘community detention’, (comunità di detenzione, ndr). Hanno un tetto, ma sono soggetti a restrizioni delle libertà. Non possono cambiare indirizzo senza permesso, lavorare, viaggiare o studiare. Solamente i minori in età scolare hanno diritto all’istruzione. Gli adulti godono di un sussidio di disoccupazione pari a due terzi di quello dei cittadini australiani. Altri sono ricoverati in ospedale. Altri ancora, più di recente, sono stati rinchiusi nei centri di detenzione australiani di Northam, Darwin, Melbourne, Villawood nella periferia di Sidney.
Proprio a Villawood, negli ultimi 4 mesi, due persone si sono uccise e altre due hanno tentato di farlo. Si tratta di richiedenti asilo provenienti da paesi in guerra come l’Iraq e l’Afghanistan. Un detenuto ha detto che lì il suicidio è diventato ‘normale’.
I centri di detenzione australiani sono chiamati ‘fabbriche di malattie mentali’. Al momento vi sono rinchiusi circa 1.250 individui, molti di loro da tanto tempo, dai tre ai sei anni. È ben noto che le detenzioni di lungo termine incidono gravemente sulla salute psicologica. Io ho visitato i centri di Darwin, Wickham Point, Curtin, Perth, Yongah Hill, Melbourne, Brisbane e Villawood. Non mi hanno mai permesso di andare a Nauru, ma negli ultimi due anni mi sono recato tre volte a Manus, dove ho incontrato anche Behrouz Boochani, l’esule curdo-iraniano che vive lì da sei anni ed è riuscito a scrivere un libro di memorie sulla prigionia.
L’isola australiana di Christmas assomiglia alla nostra Lampedusa per le barche che sono naufragate davanti alle sue coste, gli esuli annegati e gli approdi d’emergenza. Tornerà attivo il centro chiuso nel 2018?
Il governo guidato da Scott Morrison l’ha riaperto, ma nessun profugo vi è stato finora mandato. Anzi, l’esecutivo ha annunciato che richiuderà il centro a partire dal primo luglio.
Nelle elezioni di maggio il contesto politico potrebbe cambiare. E la politica migratoria?
È probabile che il governo di destra sia sostituito da uno di centro-sinistra, ma non cambierebbe granché. Se anche i Labor sgomberassero i centri di Nauru e Manus, non permetterebbero mai ai profughi di essere ricollocati in Australia. Li manderebbero in Paesi terzi. Forse accetteranno l’offerta della Nuova Zelanda di prendere 150 rifugiati. Non dimentichiamo che il partito laburista sostiene anch’esso la detenzione obbligatoria e l’utilizzo dei centri offshore per i profughi. Penso che resteranno aperti quelli in Australia e a Nauru.
Cosa ne è stato dell’accordo bilaterale di ricollocamento firmato dagli Stati Uniti di Obama e dall’Australia nel 2016?
Da allora gli Usa hanno accettato 508 persone. Entro quest’anno ne dovrebbero accogliere 1.250, ma non sappiamo se ciò accadrà sotto l’amministrazione Trump. Il processo statunitense di controllo dei requisiti è rigoroso. È improbabile che i rifugiati con problemi importanti di salute siano scelti per primi. Sappiamo come funziona il loro sistema sanitario e quanto sia ristretto l’accesso a cure adeguate. Centinaia di persone saranno lasciate indietro.
L’attuale governo italiano, dominato da sovranisti, vorrebbe adottare il modello australiano per i migranti. Tv e giornali diffondono la loro ideologia secondo cui “la questione migratoria sposta voti e gli italiani non vogliono nuovi migranti”. Chi prende la via del Mediterraneo viene respinto nei lager libici. Che cosa pensa di questa narrazione politica?
Il modello australiano è scioccante per gli abusi dei diritti umani che ha provocato. Nessun altro governo dovrebbe pensare di seguirlo. Amnesty international ha definito i centri offshore come una tortura. I politici australiani accusano i profughi di occupare posti di lavoro e pesare sul welfare, ma in realtà non è colpa loro se ci sono disoccupati e se mancano i servizi. Responsabile è chi governa. Respingere le barche con i richiedenti asilo è una violazione della Convenzione di Ginevra, un abuso dei diritti umani e del diritto a chiedere protezione. La Convenzione fu negoziata alla fine della Seconda guerra mondiale affinché i rifugiati non fossero mai più mandati indietro a qualsiasi confine. Le politiche migratorie australiane hanno un effetto dannoso: accrescono il razzismo e la xenofobia nella società.
Nei lager libici i profughi africani stanno soffrendo come coloro che si trovano a Nauru, Manus e nei centri australiani. Si parla di torture, stupri, fame e depressione. Che cos’è la ‘sindrome da rassegnazione’ che ha colpito persino diversi bambini?
È un disagio psicologico estremo che si sviluppa quando le persone perdono la speranza. Si smette di rispondere agli stimoli esterni, di agire ed emozionarsi. Si rifiuta di bere, mangiare, essere curati. Si resta indifferenti persino ai famigliari. Dipende da vari fattori. Lo stress di una prigionia indefinita, ovviamente, peggiora le condizioni psicofisiche di chi ha subito traumi nei paesi di provenienza.
Lo scorso 15 marzo, un suprematista australiano ha ucciso 50 persone in due moschee di Christchurch. Come rappresentante di Rac, lei ha manifestato a Auckland contro il razzismo. In che cosa si assomigliano le politiche migratorie di Nuova Zelanda e Australia?
In Nuova Zelanda i richiedenti asilo non arrivano in barca, se non in casi eccezionali, ma in aereo. Prima di essere identificati possono essere fermati in carcere. Non ci sono centri di detenzione, ma strutture aperte dove sono ospitati prima che le loro domande siano esaminate. Nell’attesa, i richiedenti asilo possono cercare un impiego.
Queste le differenze. E i punti in comune?
Entrambi i Paesi si affidano a un programma di ricezione di soli lavoratori qualificati (skilled workers) che rispondano alle necessità di manodopera delle rispettive economie. Accolgono anche dei rifugiati: 750 all’anno la Nuova Zelanda, 18.500 l’Australia.
La premier neozelandese, la laburista Jacinda Arden, è diventata popolare per il velo indossato dopo gli attentati alle due moschee. Tuttavia, per governare si è coalizzata con i Verdi e i nazionalisti di NZ first, il cui leader Winston Peters è islamofobo.
In campagna elettorale la Arden ha promesso di restringere la rete di ricezione dei migranti e ha assecondato una campagna razzista anti-asiatici nel mezzo di una crisi degli alloggi. Un esponente del suo stesso partito ha accusato le comunità asiatiche e, in particolare, quelle cinesi di essere favorite nell’accesso alla casa. Inoltre, è vero: per governare ha formato una coalizione con il partito nazionalista New Zealand first, fondato da Winston Peters, ben noto per i proclami contro i musulmani. Peters (politico navigato di origine per metà maori e per metà scozzese, ndr) è anche suo vice premier e ministro degli Esteri. Inoltre, le cronache locali riportano spesso episodi di discriminazione dei lavoratori e degli studenti stranieri.
Entrambe le nazioni hanno attuato delle ‘white policy’ dall’inizio del Novecento fino agli anni Settanta. Si accoglievano migranti di pelle bianca e si parlava di ‘pericolo giallo’ in funzione anti-cinese. Secondo lei, questi retaggi razzisti influenzano ancora l’immaginario e la politica?
La ‘white policy’ australiana si è conclusa formalmente, ma ha lasciato un’eredità. La demonizzazione dei richiedenti asilo che arrivano in barca si è accompagnata a una discriminazione sistematica dei musulmani e a un aumento dell’islamofobia. Alcune manifestazioni di massa hanno convinto il governo a ricollocare gli esuli siriani, ma quest’ultimo ha prediletto (in parte) i cristiani perché ‘più accettabili’ per la società australiana. Non ha scelto in modo imparziale e in base al reale stato di bisogno.
In Europa, dove la propaganda contro i migranti si è imposta di recente, si fatica a contrastarla. Voi attivisti australiani come avete fatto a resisterle per vent’anni e quali traguardi avete raggiunto?
Sebbene le politiche governative siano divenute più punitive, Rac è riuscita a produrre dei cambiamenti. Nel 2017 una campagna sociale e legale ha permesso ai richiedenti asilo di tenere un cellulare nei centri di detenzione (Behrouz Boochani ha scritto il libro No friend but the mountains con degli sms, ndr). Nel 2007 il primo governo Labor di Kevin Rudd fu eletto sulla base di politiche pro-rifugiati. Si era riusciti a spostare la maggioranza dell’opinione pubblica verso un’apertura agli esuli che arrivavano in barca. Oggi quasi tutte le organizzazioni della società civile – chiese, sindacati, associazioni di medici e operatori sanitari, avvocati, studenti, ong – sono pubblicamente contrarie al ‘modello australiano’. L’anno scorso #kidssoffnauru e la petizione di ben 7mila medici hanno costretto il governo conservatore di Morrison a liberare e accogliere in Australia tutti i bambini con i loro famigliari. Gli insegnanti di Melbourne e Brisbane hanno scioperato e manifestato per la chiusura dei centri offshore. Non abbiamo ancora ottenuto che tutti i profughi siano accolti sulla terraferma in modo permanente, ma si tratta di una vittoria notevole contro la crudeltà del governo.
Immagine di copertina: bambini nel centro di detenzione di Nauru © Refugee council of Australia
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