Mancano 3.700 GW per centrare l’obiettivo di triplicare le rinnovabili, secondo Ember. Ma ora c’è chi teme un rallentamento della crescita solare dopo anni.
Il nucleare non può essere preso in considerazione per la transizione energetica
L’energia nucleare può essere annoverata tra le fonti in grado di portare a compimento la transizione energetica? La risposta è no.
La tesi secondo cui l’energia nucleare sia indispensabile per raggiungere gli obiettivi di riduzione delle emissioni di gas serra, di CO2 di almeno il 55 per cento entro il 2030 – percentuale che ci permetterebbe di mantenerci in linea con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima e mantenere l’aumento delle temperature ben al di sotto dei 2 gradi centigradi in più rispetto ai livelli preindustriali – circola da molto tempo.
Gli scettici lamentano il fatto che le energie rinnovabili non sarebbero sufficienti a raggiungere l’obiettivo. E dal momento che, attualmente, il 35 per cento delle emissioni totali di CO2 in atmosfera è prodotto bruciando carbone, gas metano e petrolio, oltre a puntare alla crescita delle fonti da energia rinnovabile, secondo questa tesi sarebbe indispensabile includere l’energia nucleare tra le fonti “pulite”. Tra i sostenitori di questa tesi, ad esempio, c’è Bill Gates, il co-fondatore di Microsoft e filantropo, che nelle prossime settimane cercherà di convincere il Congresso americano a finanziare con miliardi di dollari TerraPower, la società statunitense da lui fondata che progetta e costruisce reattori nucleari. Un tentativo volto alla realizzazione di un nuovo tipo di reattore nucleare “più efficiente, ecologico e sicuro”.
- Quante emissioni produce l’energia nucleare
- Lo smaltimento delle scorie nucleari
- L’impatto economico del nucleare
- La sicurezza del nucleare
- Economia e ambiente: quindi quanto costa davvero il nucleare?
- Cos’è la fusione nucleare
Quante emissioni produce l’energia nucleare
Se ci limitiamo a considerare la CO2 netta che il nucleare emette in atmosfera, queste centrali sarebbero tra quelle con i valori più bassi. Le centrali di terza e quarta generazioni emettono, al massimo, 110 grammi di CO2 equivalente per chilowattora (kWh), secondo le valutazioni pubblicate dal Gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici (Ipcc), contro i 910 grammi del carbone, 650 grammi del gas, 420 grammi delle biomasse e i 180 dell’energia solare su larga scala.
Considerando tutte le altre fonti rinnovabili nella tabella pubblicata dall’Ipcc notiamo che, rispetto al nucleare, esistono forme di produzione energetica molto più “leggere”: 79 grammi di CO2 equivalente per un kWh prodotto con il geotermico, 63 grammi per il solare a concentrazione (quei grandi impianti che usano specchi per concentrare la luce solare), 60 grammi per i pannelli fotovoltaici sui tetti, 56 grammi per l’eolico onshore e 35 per quello offshore. Dunque, tutte le fonti rinnovabili emettono meno CO2 rispetto al nucleare.
Una critica che si può sollevare contro le rinnovabili è relativo alla produzione definita intermittente, soprattutto per quanto riguarda il solare e l’eolico, in quanto il sole non splende di notte e il vento non è costante. Le cose stanno cambiando: oggi i sistemi di stoccaggio sono sempre più economici ed efficienti, anche se l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) fa notare come, dopo il boom del 2018, il mercato dello storage si sia temporaneamente fermato: nel 2019 (ultimi dati disponibili), sono stati aggiunti 2,9 gigawatt di capacità di stoccaggio rispetto al 2018. Si tratta del 30 per cento in meno rispetto all’anno precedente, con punte dell’80 per cento se guardiamo al caso della Corea del Sud: lo stato asiatico, nel 2018, rappresentava un terzo della capacità globale di stoccaggio. Il calo, secondo Iea, deriverebbe dalla crescente preoccupazione per diversi incendi accaduti negli impianti di stoccaggio su larga scala. Ora le misure di sicurezza stanno migliorando e per questo, secondo diversi studi, il decennio appena iniziato è molto promettente per i sistemi di accumulo, che faranno registrare una crescita del mercato del 30 per cento da qui al 2030.
Lo smaltimento delle scorie nucleari
Le emissioni di gas serra non sono l’unico parametro da tenere in considerazione quando si parla di nucleare. Il problema che si presenta con questo tipo di energia è quello dello smaltimento delle scorie radioattive. In Italia stiamo vivendo questo tema direttamente: la Sogin, la società incaricata dal governo italiano di smantellare le centrali nucleari spente e chiuse dopo il referendum del 1986, ha pubblicato una mappa per l’individuazione di aree idonee a ospitare il deposito nazionale delle scorie radioattive. Tutti i territori selezionati si sono ribellati, proprio per la pericolosità che comporta ospitare questo tipo di rifiuti.
Legambiente ha definito “problematiche da non trascurare” quelle legate al rischio idrogeologico delle aree ritenute potenzialmente idonee a ospitare tali scorie, in quanto nei documenti della Sogin che mappano il territorio italiano vi sarebbero “vuoti conoscitivi non colmati o aggiornamenti non recepiti” in merito ai rischi idraulici, geografici e morfologici dei territori.
95mila tonnellate di materiale radioattivo, che a sua volta si divide in 78mila tonnellate di scorie “a bassa intensità” e 17mila “ad alta intensità”. Le prime sono scorie che rimarranno radioattive per i prossimi 300 anni; per il secondo tipo di scorie ci vorranno migliaia di anni prima che perdano la loro carica radioattiva (tra questi elementi c’è il plutonio, per il quale si calcolano più di 24mila anni). Nel piano italiano di smaltimento, inoltre, non c’è un’analisi del rischio di incidente in quello che sarà il deposito unico. Secondo le linee guida di Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, andrebbero verificate le conseguenze in merito “all’impatto radiologico in condizioni normali ed incidentali sulla popolazione e sull’ambiente”.
L’impatto economico del nucleare
Dal punto di vista economico, lo smantellamento delle centrali e lo smaltimento delle scorie pongono una serie di interrogativi. La centrale nucleare statunitense di Maine Yankee ne è l’esempio. Per il decommissioning si sono spesi 635 milioni di dollari finora, per costruirla ci sono voluti 230 milioni di dollari, 40 anni fa.
La sicurezza del nucleare
Al tema delle scorie è legato quello relativo alla sicurezza. L’esplosione della centrale nucleare di Chernobyl avvenuta il 26 aprile 1986 e il disastro di Fukushima dell’11 marzo 2011 innescato da un maremoto sono ancora lì a ricordarci che il nucleare non è sicuro perché errori umani o disastri naturali non si possono prevenire. Ma le conseguenze anche di un solo errore si protraggono per un periodo lunghissimo quando si parla di nucleare. Dopo 35 anni, nel raggio di 30 chilometri intorno alla centrale di Chernobyl è ancora inabitabile e il nocciolo del reattore (che continuerà a bruciare per altri 100 anni), benché chiuso in un sarcofago di cemento armato, continuerà a emettere radiazioni mortali per l’essere umano e altre forme di vita per almeno altri 300 anni. Per Greenpeace gli anni sono 20mila.
La storia, peraltro, ci ricorda che i disastri nucleari sono numerosi. Quasi tutti (eccezion fatta per Fukushima e Chernobyl che comunque sono stati classificati come i peggiori disastri nucleare della storia) si sono verificati tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Ma anche gli effetti di questi incidenti persistono oggi. Di recente, la Francia è stata attraversata da una densa nube di sabbia proveniente dal deserto del Sahara contenente cesio-137 frutto degli esperimenti nucleari condotti negli anni Sessanta.
L’innalzamento delle temperature dovuto al riscaldamento globale metterà sempre di più a dura prova i sistemi di sicurezza delle centrali, sia per via di eventi meteorologici estremi che per l’aumento del consumo di acqua, risorsa sempre più scarsa e preziosa. Le centrali elettronucleari fanno affidamento su grandi quantità di acqua dolce per il raffreddamento del nocciolo. Senz’acqua non funzionano correttamente e potrebbero essere costrette alla chiusura.
Economia e ambiente: quindi quanto costa davvero il nucleare?
E veniamo all’ultimo punto, quello relativo al mantenimento del combustibile. Dal 2009 al 2019, il costo del fotovoltaico al megawattora è diminuito del 89 per cento, passando da circa 300 euro a 30. Nello stesso periodo, un megawattora prodotto da energia nucleare è aumentato di circa il 26 per cento, passando da 105 a 130 euro. Un megawattora, quindi, se prodotto con energia solare costa quattro volte meno rispetto allo stesso megawattora prodotto con il nucleare.
A questi calcoli vanno aggiunti i costi della realizzazione dell’impianto. Qualche anno fa, il nucleare sembrava pronto a vivere il suo revamping grazie ai reattori di quarta generazione che promettevano di riutilizzare le scorie come nuovo carburante, risolvendo in un solo colpo il problema dell’approvvigionamento e del costo dell’uranio e quello dello smaltimento dei detriti radioattivi.
Poi, dopo il disastro di Fukushima, la realizzazione delle centrali ha subito rallentamenti e le previsioni dei costi aumentate per via della complessità dei nuovi requisiti di sicurezza. Allora c’è chi ha proposto la realizzazione di impianti più piccoli: gli Stati Uniti hanno già costruito due nuovi piccoli reattori nei laboratori di ricerca governativi nell’Idaho, il Giappone ha realizzato un piccolo reattore denominato Monju e anche la Francia, con i due prototipi Phenix e Superphenix, sta investendo sul futuro del nucleare civile. Ma nessuno ha trovato ancora la soluzione finale e la sicurezza assoluta. Inoltre, rimane sempre il problema delle scorie radioattive da risolvere.
Infine, se i costi sociali e ambientali fossero a carico delle aziende proponenti, il nucleare sarebbe ancora più sconveniente. Se le società energetiche coinvolte nei disastri di Fukushima e Chernobyl avessero dovuto calcolare i danni per la comunità in seguito a un incidente o a un maremoto, si sarebbero tutelate attraverso assicurazioni che avrebbe fatto lievitare il costo di gestione delle centrali. Tali costi, poi, andrebbero a sommarsi ai costi che già gravano sulla collettività, tra i quali quelli relativi allo smantellamento delle centrali in disuso (in Italia, per esempio, si paga un’accise presente nella bolletta elettrica dei cittadini). Ma il sostegno economico più consistente i cittadini la danno attraverso i sussidi ambientalmente dannosi, attraverso i quali lo stato ogni anno “regala” – almeno in Italia – 20 miliardi al comparto di petrolio e gas.
Invece della fissione, si punta sulla fusione nucleare
“La vera fonte energetica universale saranno le stelle. L’universo funziona con la fusione nucleare. Quella è la rinnovabile delle rinnovabili”. Sono le parole del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani in occasione della videoconferenza di presentazione delle linee guida del suo ministero alle commissioni riunite ambiente e attività produttive della camera e del senato. “Io spero che, se avremo lavorato bene, fra dieci anni i nostri successori parleranno di come abbassare il prezzo dell’idrogeno verde e di come investire sulla fusione nucleare”, ha aggiunto Cingolani. “Questa è la transizione che ho in testa”.
Le parole di Cingolani hanno acceso il dibattito intorno alla fusione nucleare. Che cos’è? La fusione termonucleare è una reazione attraverso la quale i nuclei di due o più atomi si uniscono tra loro, liberando energia. Il processo di fusione di nuclei atomici è il meccanismo alla base delle stelle. Ma per molti esperti, controllare questo processo, attualmente, è ancora utopia.
Eppure, c’è chi ci sta lavorando. In Francia, è in fase di costruzione il reattore Iter, programma nato dalla collaborazione tra Unione europea, Stati Uniti, India, Giappone, Corea del Sud e Russia. Iter prevede la costruzione di un reattore sperimentale per la fusione termonucleare a Cadarache, nel sud della Francia, che dovrebbe diventare operativo nel 2025. In Corea del Sud, a fine 2020, il reattore Kstar ha superato ogni previsione raggiungendo temperature superiori ai 100 milioni di gradi, mantenendole stabili per venti secondi. Un record, sì, ma finora nessun progetto ha dimostrato l’efficacia concreta della fusione nucleare, perché l’input energetico è ancora superiore alla quantità di energia prodotta.
A questi esperimenti si è aggiunta di recente la startup californiana Tae Technologies, che ha riferito che entro il 2030 potremmo disporre di un reattore a fusione nucleare. Rispetto agli altri progetti, quello della Tae si differenzia perché a finanziare la sperimentazione è Google, con un investimento di 280 milioni di dollari. Quella tra Google e la Tae non è una relazione nata da poco: i due si frequentano già dal 2017, quando il colosso della Silicon Valley sviluppò un algoritmo in grado di accelerare le sperimentazioni sul plasma, per produrre enormi quantità di energia senza la necessità di altri input.
Fusione nucleare o no, quel che è certo è che le energie da fonti rinnovabili rappresentano un settore già conosciuto, più economico di qualsiasi altra forma di investimento e hanno già dimostrato di essere in grado di raggiungere gli obiettivi in termini di emissioni fissati da qui al 2030. Servono più investimenti, perché si realizzi una copertura più vasta di quella attuale. Il Piano nazionale di riprese e resilienza (Pnrr) può sostenere una transizione energetica più equa e sostenibile, lasciando da parte l’energia nucleare.
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