La cooperazione allo sviluppo sta trovando nuovi ritmi. È un mutamento solo di forma e mezzi o di contenuti e senso? La risposta nell’editoriale di Avsi.
Quando un aereo attraversa il cielo, oggi è quasi una notizia. Anche il cielo è tornato silenzioso per il virus, che ha chiuso le rotte dei nostri viaggi, delle attraversate dell’oceano e dei continenti. I trolley sono abbandonati alla polvere negli sgabuzzini e le missioni dei cooperanti restano sospese, a data da destinarsi, mentre il lavoro procede virtualmente. Segni tangibili che, almeno nelle forme, la cooperazione allo sviluppo sta assestandosi su un nuovo ritmo. Ma appunto è un mutamento solo di forma e mezzi o di contenuti e senso? Se la crisi sanitaria ed economica provocata dalla Covid-19 ha sballato e seminato diseguaglianze, disoccupazione e povertà senza tener conto della geografia, è ancora un discorso sensato quello di chi sostiene l’importanza di investire negli aiuti allo sviluppo in paesi lontani?
Il nuovo significato di cooperazione internazionale
Tra gli smottamenti che la pandemia sta ancora causando, si distingue un punto fermo: il bene e il male di ogni singola persona, di ognuno di noi, non viaggiano autonomamente. Siamo legati a doppio filo al destino di tutti gli altri. Anche a distanza di migliaia di chilometri. A dicembre leggevamo le notizie di Wuhan come venissero da un altro pianeta, e poi ci siamo trovati noi su quel pianeta e dobbiamo ancora scendere.
Perciò la cooperazione internazionale mantiene il suo senso, anzi lo raddoppia: il suo lavoro e la sua esperienza in emergenze impreviste, in luoghi lontani per reddito e benessere, divenuti molto vicini, si stanno dimostrando di aiuto per affrontare anche qui una situazione che registra un aumento di persone vulnerabili, una crescente domanda di aiuti, dal cibo al lavoro, dall’accompagnamento educativo per i più piccoli al sostegno psicologico e sociale.
La prossimità non è tanto misurabile in metri o chilometri di distanza fisica, ma nella capacità di ascolto dei bisogni, nel mettersi a disposizione per rispondere a questi.
Maria Laura Conte, Avsi
Chi per professione ha a che fare con la cooperazione allo sviluppo ha imparato disegnando i progetti, o valutandoli, promuovendoli o raccontandoli, che c’è in tutti gli uomini il bisogno di una rete, di una comunità a cui appoggiarsi, sempre, ma soprattutto quando le circostanze si fanno difficili, impossibili. Che tutti hanno bisogno di prossimità, cioè di qualcuno vicino con cui incassare i colpi e però poi procedere e fare un pezzo di strada. Certo non “a sentimento” o per buona volontà, ma grazie a piani e programmi mirati, trasparenti, sostenuti da budget precisi, in cui tutti i soggetti coinvolti siano protagonisti e investiti di responsabilità, operatori, donatori e beneficiari.
Forse prima della pandemia, quando usavamo questa parola, “prossimità”, pensavamo a chi incontriamo nella vita quotidiana, nello spazio ordinario. Adesso, dopo il ribaltamento delle distanze-vicinanze, prossimità intensifica il suo spettro e arriva ad abbracciare tutti coloro che hanno bisogno di un aiuto, ora.
E provoca il lavoro anche delle ong a trasferire esperienze e buone pratiche dove si manifesta il bisogno, come in Italia in questa estate della pandemia, per esempio, dopo aver lavorato per cinquant’anni in Africa, America Latina e Medio Oriente, realizzando interventi di educazione, formazione al lavoro, accompagnamento fuori dalla povertà, nutrizione, solo per citare alcuni dei tanti settori di intervento.
Per questo, restando fedele alla sua vision – “lavorare per un mondo in cui la persona, consapevole della sua dignità, sia protagonista dello sviluppo integrale suo e della sua comunità, anche in contesti di crisi ed emergenza” – Avsi ha avviato alcuni progetti di emergenza anche in Italia. “Accanto a chi ha bisogno”, non a caso, è il nome scelto per questa serie di interventi integrati, con la collaborazione di partner diversi, che sostengono famiglie precipitate in una situazione di fragilità a causa dell’impatto del virus sull’economia e gli equilibri sociali.
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Perché questa è la stoffa più resistente della prossimità: non è tanto misurabile in metri o chilometri di distanza fisica, ma nella capacità di ascolto dei bisogni, nel mettersi a disposizione per rispondere a questi.
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