Con “Cose belle dal mondo per non pensare che va tutto male”, la nostra rubrica Instagram diventa un libro con storie di impatto positivo su persone e ambiente. È in libreria dal 5 novembre.
Il viaggio più bello. Il libro di Alex Bellini è una guida per vincere la paura della trasformazione
Con il libro “Il viaggio più bello”, l’autore accompagna il lettore in un percorso virtuale per sciogliere i nodi emotivi dovuti al cambiamento. L’intervista a Alex Bellini.
In questi mesi di isolamento forzato la cosa che più ci è mancata sono stati i viaggi. La possibilità di scoprire ed esplorare luoghi, culture, sapori nuovi. Ne sa qualcosa Alex Bellini, esploratore e divulgatore ambientale, conosciuto per le sue imprese ai limiti delle possibilità umane. Alex ha attraversato due oceani in solitaria su una barca a remi, ha percorso rotte polari a piedi, ha corso una maratona in mezzo al deserto del Sahara e un’altra da Los Angeles a New York. Poi è arrivato il coronavirus, paralizzando il mondo intero. Ed è proprio a questo punto che Bellini ha potuto ripercorrere e raccontare in un libro quello che è stato il suo viaggio più bello: quello dentro di sé.
Una conversazione con Alex Bellini
Edito da Chiarelettere e disponibile in tutte le librerie e in tutti gli store online, il libro racconta i sei nodi da sciogliere per vincere la paura della trasformazione. È un viaggio molto diverso da quelli cui è abituato Bellini, che non ha nulla a che vedere con la forza fisica: è un viaggio interiore, forse il più impegnativo, che percorre la strada tortuosa del cambiamento e tenta di abbattere il muro della paura. Il risultato è un libro che accompagna il lettore nell’esplorazione del proprio io alla scoperta del viaggio più bello.
Di viaggi ne hai fatti tantissimi, qual è stato il più bello?
Ho dedicato questo libro alla mia famiglia, a Francesca e alle mie figlie, che al di là di tutte le meraviglie che si possono apprezzare esplorando il mondo, rappresentano il viaggio più bello e anche quello più impegnativo. Essere genitori oggi è una bella sfida, ogni tanto ci troviamo impreparati. Bisogna rimboccarsi le maniche e darsi da fare esattamente come si fa per attraversare un oceano. A parte questo quadretto familiare, il viaggio più bello è quello che ho percorso all’interno di me stesso. Ho fatto sicuramente tanti chilometri in barca a remi – 30mila sommando le traversate dell’oceano Atlantico e del Pacifico –, però questa distanza è niente in confronto a quella che ho percorso navigando nelle varie pieghe della mia personalità, che è complessa e impegnativa. Non c’è viaggio più gratificante di quello che si compie dentro se stessi. Talvolta ci sorprende, talvolta ci sconforta.
In questo tuo percorso interiore hai individuato sei nodi da sciogliere, il primo di questi è il nodo della rinuncia. Perché è così difficile “lasciare andare” e come capiamo quando è il momento giusto per farlo?
“Lasciar andare” è qualcosa di molto difficile perché è immediata l’associazione con il fallimento. Quando si lascia andare, nel comune pensare si è rinunciatari. È profondamente sbagliata questa associazione, perché talvolta l’unico modo per andare avanti è proprio lasciar andare, naturalmente intendo le cose superflue, le cose che non sono più utili. Capiamo che è il momento giusto quando queste cose ci impediscono di fare il passo successivo. Il mondo cambia e tutti i giorni siamo chiamati a cambiare con esso proprio perché dobbiamo adattarci. E se da un lato siamo eccitati all’idea di fare cose nuove, dall’altro siamo spaventati perché siamo persone abitudinarie.
Quindi quando qualcuno ci chiede di lasciare andare qualcosa che magari abbiamo fatto regolarmente e continuamente, abbiamo la tentazione di rimanere uguali a noi stessi, però questo ci impedisce di evolvere. Ogni nodo lo associo a un’esperienza e l’esperienza che associo al lasciar andare è quella che mi ha visto protagonista in Islanda durante la traversata del ghiacciaio Vatnajökull: ho dovuto lasciare andare la mia slitta e la mia attrezzatura, che erano diventate non più l’opportunità di sopravvivere ma il rischio di soccombere al mondo che cambiava. Bisogna avere sensibilità e intelligenza. A volte di quello che facciamo abitualmente, diventiamo gelosi, anche dei modi di pensare, degli schemi mentali. Quanto è difficile lasciare andare un’abitudine? Anche se non è produttiva o addirittura lesiva. Bisogna avere molta elasticità.
Il secondo nodo è quello del silenzio e nel libro ci ricordi che l’Organizzazione mondiale della sanità ha definito l’inquinamento acustico una piaga moderna. Perché è così importante il silenzio?
Il silenzio è la scintilla generatrice di quel ponte che ci mette in connessione con noi stessi ed è importante perché siamo molto distratti dal rumore. Il rumore è associato alle attività, alla produzione, mentre il silenzio alle cose inutili, che non producono reddito. Ma solo nel momento in cui riusciamo a creare silenzio attorno a noi, ci permettiamo di connetterci con noi stessi. Perché si teme la connessione con se stessi? Perchè se trovassimo il vuoto, questo sì che potrebbe creare qualche vertigine. Daniel Lumera, che ha praticato meditazione per molti anni e con cui mi sono confrontato spesso durante la stesura del libro, è stato la mia guida spirituale. Lumera dice che l’uomo senza silenzio non si appartiene, si disgrega, si dissolve. Un uomo che non sa stare in silenzio non trova un centro fisso. A volte mi immagino l’essere umano come un grande tornado, il silenzio ci porta al centro dell’uragano, laddove non tira vento.
Questo nodo è collegato al terzo che descrivi, cioè il nodo dell’attenzione e della presenza mentale. Nel descriverlo usi una metafora tipicamente ecologista, ovvero “ripulire la strada dopo il passaggio dell’elefante”. In che modo questa espressione può essere applicata alla nostra mente?
L’associazione con l’elefante è per individuare una strategia preventiva: sarebbe meglio che l’elefante non sporcasse. Quello che possiamo fare è andare dietro all’elefante e tentare di ripulire, che è un po’ quello che facciamo nel tentativo di ripulire l’oceano Pacifico dalla plastica, dal Great Pacific garbage patch: sarebbe molto più utile e efficace impedire che la plastica raggiunga l’oceano.
Coltivare la presenza mentale sarebbe quella strategia preventiva che ci permette di evitare che il nostro habitat interiore venga inquinato. Abbiamo la capacità di concentrazione di un secondo superiore a quella di un pesce rosso, che è di otto secondi. Questo mi sconvolge perché ci espone a un grosso problema: all’incapacità di perseverare per non essere distratti dai continui stimoli cui siamo sottoposti. Possiamo allenare la presenza mentale quotidianamente con azioni semplicissime: quando si lavano i piatti, si lavino i piatti! Quante volte invece mentre laviamo i piatti siamo altrove, pensiamo ad altre cose? Chiediamoci piuttosto che cosa stiamo provando. In quell’istante questa domanda fa nascere la curiosità e attiva l’ascolto, che è poi l’occasione per andare ad indagare quello che succede nel mondo intorno a noi.
Infatti è proprio l’ascolto l’oggetto del quarto nodo. In che modo sono collegati l’ascolto e la capacità di controllo?
Molti dei nostri comportamenti sono automatici, e quando questo avviene perdiamo il controllo dei nostri istinti e delle nostre reazioni. Pensa all’ira, o ad altri stati d’animo travolgenti. Se non riusciamo a controllarli, reagiamo con i venti periferici dell’uragano di cui parlavamo prima. Ogni essere umano ha una forza distruttiva, ma è tanto più distruttiva quanto più è guidata da istinti incontrollabili. Riuscire a mettersi in ascolto, percepire il nostro stato d’animo e comprendere come possiamo regolare le nostre risposte, ci permette di creare autocontrollo, che non vuol dire sopprimere tale stato d’animo ma significa servircene al meglio, al fine di raggiungere l’obiettivo che ci siamo prefissati. Questa è una dinamica molto sottile che ci permette di capire come possiamo regolare le nostre risposte soltanto nel momento in cui riusciamo a percepire il vulcano che sta eruttando, altrimenti saremo completamente guidati e schiavi dei nostri impulsi.
Per raggiungere i nostri obiettivi è bene armarsi di pazienza, che è il tema centrale del quinto nodo. Cos’è secondo te la pazienza?
Parto da un’esperienza traumatica di cui parlo nel libro: la perdita di mia madre, quasi vent’anni fa. A seguito di quell’evento, entrai in contatto diverse volte con la preghiera della serenità che dice: “Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscere la differenza”. La pazienza si riferisce proprio a questo: allinearsi ed entrare in sintonia con le cose che non posso controllare, o avere un’apertura nei confronti delle cose che stanno al di fuori. La pazienza è spesso considerata la virtù dei forti però quante persone forti sono anche pazienti? Le persone che hanno potere non hanno pazienza ma vogliono raggiungere e avere tutto subito, quindi la pazienza diventa di fatto l’ultima spiaggia dei vinti. Se non ci puoi fare niente, beh, porta pazienza! La pazienza è una forma di coraggio, sembra che agire richieda più coraggio che portare pazienza, ma questa è una forma più sottile, è umile, mentre l’agire è eroico. La pazienza è di chi fa tutto ciò che è in suo potere fare e poi aspetta che l’erba cresca. Pazienza non solo verso gli altri ma soprattutto verso di noi. Bisogna rimanere in attesa senza retrocedere.
Resistere implica una certa vulnerabilità, che spesso non mettiamo in conto di avere. Ed è proprio l’oggetto del sesto e ultimo nodo. Nel libro scrivi che la vulnerabilità è l’ostacolo più grande che ci troviamo ad affrontare. Perché?
Oggi ci troviamo a dover sfidare la nostra vulnerabilità, che è messa a dura prova, perché di natura siamo vulnerabili. C’è anche un’altra forma di vulnerabilità che è quella verso l’ambiente, e il coronavirus ce lo sta dimostrando. Di tutte le sfide, l’accettazione della nostra vulnerabilità è la più difficile perché viviamo sicuramente in una società che ci vuole perfetti. Durante la traversata del Pacifico nel 2008 mi sono ritrovato a fare i conti con la persona che ero e se fino a un momento prima avevo l’idea di essere una persona tenace, coraggiosa, tutta d’un pezzo, capace di resistere alle difficoltà, mi sono reso conto in quel momento che ero anche l’esatto opposto e dovevo accettare quel lato di me che era fragile e imperfetto. Fino ad allora avevo ignorato la mia ombra ed esaltato solo la mia parte in luce. Solo quando si riesce ad accogliere la propria parte in ombra si diventa una cosa unica. Nella traversata del Pacifico è iniziata una seconda fase della mia vita, in cui so chi sono e so che sono fatto di parti in luce e parti in ombra e forse solo a quel punto si può dire di essere completi.
Concludi il libro con una domanda che rivolgi al lettore e che io, a mia volta, giro a te. Sei contento di ciò che stai contribuendo a creare, o cambieresti qualcosa?
È una domanda impegnativa, non così scontata. Io sarei tendenzialmente contento di quello che sto creando. Certo, come sempre questa forma di perfezionismo che coglie un po’ tutti quanti, mi porterebbe a dire che potrei fare meglio, però sono contento. Qualche anno fa non avrei mai pensato di arrivare a questo punto della mia vita. Non mi sarei mai immaginato di avere due figlie, di poter avere un così buon rapporto con loro, di farle crescere anche con una certa sensibilità verso i temi che mi interessano di più, quelli ambientali ma anche quelli del comportarsi bene. E se guardo la mia vita attraverso questa lente, credo di stare facendo un buon lavoro. Non tutti i meriti sono miei però, molto del lavoro viene fatto silenziosamente, quotidianamente e stoicamente da mia moglie, che non solo ricopre il ruolo di madre, di compagna ma talvolta sopperisce alle mie mancanze o alle mie assenze. Siamo una bella squadra.
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