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Il ritorno dei Massive Attack
Il ritorno dei Massive Attack In principio c’era il Wild Bunch, il mucchio selvaggio – dal rivoluzionario western di Sam Peckinpah – collettivo eclettico attivo a Bristol intorno a cavallo della metà degli anni ’80. Un combo misto composto da un pugno di personalità differenti che fecero del loro eclettismo il punto di forza della
Il ritorno dei Massive Attack
In principio c’era il Wild Bunch, il mucchio selvaggio – dal
rivoluzionario western di Sam Peckinpah – collettivo eclettico
attivo a Bristol intorno a cavallo della metà degli anni
’80. Un combo misto composto da un pugno di personalità
differenti che fecero del loro eclettismo il punto di forza della
loro ricetta sonora. Furono loro a confezionare il suono di Bristol
che con il tempo e per esteso avrebbe preso il nome di trip hop
indicando un suono ibirdo, figlio dell’hip hop, del reggae, del dub
e del jazz; atmosfere rarefatte, modo cupo e un ritmiche
quiete.
Più che scomparire il mucchio confluisce in gran parte nei
Massive Attack, progetto fondato sul trio Robert “3D” Del Naja,
Grant “Daddy G” Marshall e Andrew “Mushroom” Vowles ai quali si
aggiunge il contributo saltuario per i primi due album di Adrian
Thaws, in arte Tricky. Sono loro a firmare le prime pietre miliari
del trip hop: Blue Lines (1991) e poi Protection, uscito nel 1994,
anno miraibilis del trip hop. I due dischi proiettano il gruppo al
centro dell’attenzione, non solo britannica, grazie a un suono
nuovo e in divenire, sintesi dei precedenti esperimenti che trovano
finalmente forma compiuta.
Il fenomeno fiorisce nei lavori dell’etichetta Mo Wax e più
avanti nel progetto fatto di contaminazioni con il rock del suo
boss James Lavelle, in quello di Howie B per restare in Inghilterra
o dei cugini Portishead (per restare a Bristol) – solo per fare
alcuni nomi di allora – e apre addirittura la strada a personaggi
sino ad allora “inclassificabili” come Bjork.
L’altro lato della medaglia porta però alla clonazione e
alla mercificazione del prodotto. Spunta chi prova a rubare la
ricetta e fa più o meno strada, dai Morcheeba, per citare il
caso più eclatante, in giù.
Nel frattempo la storia della band prosegue in ascesa, fino a
Mezzanine (1998), disco che accentua le atmosfere sperimentali,
dark contaminando la sua formula con elementi presi dal rock
psichedelico.
Il successo di pubblico e critica dell’album, considerato tra i
dischi più importanti del decennio, non riesce ad
ammorbidire le tensioni emerse nel frattempo nel trio che perde
definitivamente Mushroom e per il successivo 100th Window (2003),
ritenuto da molti quasi una fotocopia del suo predecessore, anche
Daddy G.
Oggi, dopo ben sette anni di silenzio – interrotti solamente da
vari divertissement (colonne sonore soprattutto) – tocca a
Heligoland riprendere la file del discorso.
Il disco, uscito il 5 febbraio, vede il ritorno di Daddy G e la
partecipazione dell’afficionado Horace Andy, di Damon Albarn, della
vecchia amica Martina Topley Bird, di Hope Sandoval, di Guy Garvey
degli Elbow e dell’ottimo Tune Adebimpe dei Tv On The Radio. Il duo
prosegue nella tradizione di ospiti illustri, trade mark sin dagli
esordi, quando ad accompagnarli erano Tricky, Neneh Cherry,
Nicolette, Tracy Thorne, Elizabeth Fraser e Sinead O’Connor.
Ed è proprio questa “continuità”, per non dire
conservatorismo, il punto “debole” dei Massive Attack post
Mezzanine.
Soprattutto se raffrontata alle moderne evoluzioni del suono che
hanno creato o alle scelte ben più complesse e intriganti
prese dagli ex compagni di viaggio Tricky e Portishead. Un’anomalia
per un gruppo che ha mescolato le carte e i generi per un decennio,
puntando sempre dritto verso la sperimentazione e l’avanguardia.
Perché se un tempo avremmo dibattuto e analizzato il DNA del
nuovo nato per scoprirne la paternità e rintracciare nuovi
fonti d’ispirazione oggi, di fronte ad Heligoland non succede,
possiamo solo constatare che si ti tratta di un ottimo disco pop.
Esattamente quello che avremmo potuto aspettarci. Ma senza
sorprese.
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