Ilan Pappé, storico. Sulla Palestina la soluzione è uno stato laico e democratico

Ilan Pappé è uno storico israeliano critico nei confronti del sionismo e per questo ha dovuto fare molti sacrifici. Lo abbiamo intervistato in occasione di un suo intervento nel nostro paese.

  • Antisionismo è l’atteggiamento di coloro che si oppongono al sionismo, cioè al movimento politico fondato nel 1897 volto alla costituzione di uno Stato nazionale ebraico in parte di quello che fu il Mandato britannico della Palestina e, prima ancora, la Palestina ottomana.
  • Antisemitismo è il pregiudizio, la paura o l’odio verso i giudei, cioè gli ebrei.

Una domenica sera, a Torino, incontriamo Ilan Pappé, storico israeliano che dagli anni Novanta insegna storia all’università di Exeter, nel Regno Unito. Pappé è stato allontanato dalla sua terra perché critico nei confronti del sionismo e poiché è uno dei rappresentanti della cosiddetta Nuova storiografia israeliana, una corrente di storici “scomoda” ai governi che continuano a propugnare una versione edulcorata, se non falsa, della guerra contro la Palestina. Pappé, infatti, è conosciuto per aver documentato la “pulizia etnica” del 1948 ai danni dei palestinesi, una pagina storica oscura conosciuta con il termine nakba (letteralmente “catastrofe”) e con la quale Israele non ha mai voluto fare i conti.

Torino, dicevamo. Invitato dal gruppo torinese della campagna Bds (Boycott, disinvestment and sanctions), campagna di boicottaggio dell’economia e dei prodotti israeliani (Bds si ispira al movimento anti-apartheid sudafricano ed esorta i cittadini boicottare prodotti e servizi delle aziende che stringono accordi commerciali con Israele, affinché questo rispetti il diritto internazionale e ponga fine all’occupazione dei territori palestinesi) e dall’associazione Progetto Palestina, Pappé ha parlato davanti a una platea composta da centinaia di ascoltatori. Noi di LifeGate lo abbiamo incontrato prima dell’evento.

Ilan Pappé
Ilan Pappé a Torino, al centro. Novembre 2023 © Maurizio Bongioanni/LifeGate

Professor Pappé, lei ha parlato di nakba come un evento di “pulizia etnica” e ha documentato la presenza di un piano, il Piano Dalit (o Plan D), cioè di come l’espulsione e i massacri dei palestinesi in quegli anni fossero stati preparati a tavolino da un gruppo di israeliani sionisti. C’è qualcosa di quel piano che sopravvive ancora oggi?
Quella del 1948 è stata definita dagli arabi palestinesi una “catastrofe”, appunto una nakba. Negli anni successivi hanno sempre sostenuto che la nakba non si fosse mai interrotta. In certi versi, la guerra in corso a Gaza è un capitolo di questa storia, che è iniziata con una pulizia etnica e non si è mai fermata nei decenni successivi. L’idea alla base è sempre la stessa: Israele vuole conquistare nuovi territori, senza palestinesi al suo interno. Non posso essere sicuro che ci sia un piano come il Plan D dell’epoca, ma le operazioni per consolidare quel piano sono le stesse. Prima si spingono gli abitanti della Striscia di Gaza dal nord verso il sud, poi si propone di mandarli in Egitto, nel Sinai, oppure coinvincerli ad andarsene in altri paesi. In altre parole, i crimini contro l’umanità documentati nel 1948 continuano tuttora.

Nel momento in cui si critica Israele per la guerra in corso, si viene accusati di anti-semitismo. Non pensa sia una trappola comunicativa?
Il termine “anti-semitismo” viene spesso abusato dagli israeliani. Il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres è stato accusato di anti-semitismo per aver invitato Israele a riflettere sulle cause che hanno portato all’attacco di Hamas; l’ambasciatore israeliano dell’Onu si è appuntato addirittura la stella di David sul petto. Sono tutte forme di abuso di un termine legato a una specifica pagina storica, quella dell’Olocausto. Israele sta usando gli attacchi del 7 ottobre per giustificare il suo piano di pulizia ai danni della popolazione palestinese e ha interpretato la solidarietà dei paesi occidentali come “carta bianca” per continuare a perseguitare i palestinesi, sia a Gaza sia in Cisgiordania. La fonte delle violenze, invece, va ricercata nei fatti che hanno caratterizzato il 1948, l’anno della pulizia etnica in Palestina, quando i generali israeliani misero nero su bianco la lista dei villaggi da bruciare e annientare, così che i palestinesi non potessero fare ritorno.

E qui c’è un paradosso storico: i kibbutz che sono stati attaccati il 7 ottobre sorgono proprio sulle rovine dei villaggi palestinesi dati alle fiamme dagli israeliani durante la nakba. Perché il mondo non ha mai condannato la pulizia etnica accaduta in quei villaggi e perché le autorità arabe palestinesi non hanno perorato quella causa?
Rispondo prima alla seconda parte della domanda. Il movimento di liberazione palestinese ha affrontato un’enorme crisi nel 1982, senza mai riprendersi. Ciò ha causato la mancanza di unità e di una leadership forte tra i palestinesi, che invece hanno perseguito questioni diverse: per esempio, le autorità palestinesi nella Cisgiordania si sono concentrate nel porre fine all’occupazione, Hamas nel mettere fine all’assedio della Striscia di Gaza. Mentre, troppa poca attenzione è stata riservata al diritto di ritornare nelle proprie terre. Su questo, nel 2018, fu organizzata la ‘grande marcia del ritorno’ (in cui diversi manifestanti palestinesi persero la vita, nda): questo dimostra che i palestinesi conoscono questo diritto e che ci tengono. Il resto del mondo, invece no: la narrazione imperante nei media occidentali ha sempre negato i dettagli della nakba, nessuno che si chiede perché esiste la Striscia di Gaza e chi sono i rifugiati che vivono lì e, infine, perché si è arrivati agli attacchi del 7 ottobre.

C’è una parte di israeliani che non vuole questa guerra e che critica le scelte del governo? E che riescono in qualche modo a far sentire la propria voce?
Io credo non ci siano poi molte persone contrarie alla guerra, sicuramente ce ne sono di meno dopo gli eventi del 7 ottobre. Molti supportano le scelte di governo perché vogliono vendicare quanto accaduto ai loro connazionali. Le persone che si oppongono alle decisioni governative non trovano spazio, è difficile parlare perché il governo non supporta la libertà d’espressione: per esempio, abbiamo casi di insegnanti di storia famosi che sono stati arrestati per aver espresso le proprie critiche. Sebbene a Tel Aviv siano state permesse contestazioni di piazza, nella mia città natale, Haifa, nessuno è potuto scendere in piazza. È il contesto generale che non permette di essere critici, e questo accadeva già prima del 7 ottobre.

Lei ha citato i casi di professori arrestati. A questo proposito, come si parlava di nakba e della ‘causa palestinese’ nelle scuole di Israele?
Una volta c’era più spazio per la questione palestinese nelle scuole, oggi non più. Negli anni Novanta c’è stato un periodo di relativa apertura e alcuni testi scolastici furono riscritti, introducendo alcuni rimandi alla nakba. Dopo la seconda Intifada (che durò dal 2000 al 2005, nda), però, i libri tornarono a essere più “leali” nei confronti della narrazione sionista, quindi senza specificare le espulsioni, i massacri e raccontando che i palestinesi non erano le vittime, bensì barbari nemici da combattere. Sono testi che non fanno altro che incentivare il fanatismo nazionalista nelle nuove generazioni di ebrei.

Cosa pensa di Hamas? C’è chi li descrive come terroristi, chi un movimento di resistenza armata…
Hamas fa parte di un ampio fenomeno, che ricade sotto l’etichetta ‘islam politico’, un gruppo politico che usa l’islam per proporre e raggiungere i propri obiettivi. Hanno ottenuto potere poiché i gruppi secolari hanno fallito nel sostenere le istanze della popolazione civile. Hamas ha le sue radici in un fenomeno nato negli anni venti del Novecento, quando i Fratelli musulmani in Egitto rivolsero la loro attenzione sulla Palestina. Hamas prese così parte alla liberazione della Palestina ma quella da loro perseguita è una liberazione su base religiosa. Usano le armi e sono anche un movimento sociale. Certo, usano il terrorismo ma anche Israele usa il terrorismo, solo che lo stato ebraico non viene considerato tale dai paesi occidentali. Nella legge britannica, si definisce ‘terrorismo’ l’uso della violenza per raggiungere obiettivi politici. Ma Hamas usa la violenza anche per difendere un territorio e le Nazioni Unite sostengono tale diritto. Insomma, è una fotografia complicata ma quando l’Europa usa l’etichetta “organizzazione terroristica” per descrivere Hamas non sta facendo un’analisi approfondita della situazione.

Quale soluzione auspica lei per un ritorno a una condizione stabile?
Faccio parte di un movimento che si chiama “One democratic state campaign”. Palestinesi e israeliani devono vivere insieme, in un paese democratico e laico, e i rifugiati devono poter tornare nelle loro terre d’origine. Ciò prevede la fine del sionismo e delle istituzioni sioniste, la fine delle discriminazioni su base religiosa, etnica e di genere. Raggiungere una soluzione di questo tipo non è facile, certo, molti ebrei la osteggiano fortemente ma è l’unica che vedo auspicabile, poiché l’attuale situazione, così come la proposta dei due stati sostenuta dalle Nazioni unite, dagli Stati Uniti e dal resto del mondo occidentale, non farà che peggiorare le cose. Anche i movimenti nazionalisti palestinesi andranno convinti ad adottare la soluzione dell’unico stato: andrebbe creata una nuova alleanza, una nuova Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina, nda) o comunque un nuovo soggetto che sappia discutere seriamente di questo. Io credo che la nuova generazione di palestinesi, dato che la popolazione palestinese è una delle più giovani del mondo, dove il 50 per cento della popolazione ha meno di 18 anni, ecco penso che possa creare nuove istituzioni per perseguire questo obiettivo.

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