A tre anni dalla storica sentenza Cordella sull’Ilva di Taranto, la Corte europea dei diritti dell’uomo condanna ancora l’Italia: il rischio per la salute persiste.
Per la Corte, il governo italiano non ha fatto ancora nulla per migliorare la situazione ambientale
Ancora una volta “il diritto dei ricorrenti interessati al rispetto della loro vita privata è stato violato”
Secondo l’Oms, a pieno regime Ilva causava da 270 a 430 morti premature ogni dieci anni
Dal 24 gennaio 2019 il governo italiano non ha fatto nulla per migliorare la situazione ambientale drammatica prodotta dagli stabilimenti ex Ilva di Taranto. A stabilirlo sono quattro sentenze emesse il 5 maggio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) sulla base dei ricorsi presentati da alcuni operai dell’acciaieria. Tutti i ricorsi sono basati sulla storica sentenza “Cordella e altri” emessa all’inizio del 2019: in quel caso lo stato italiano, chiamato in causa da 180 cittadini tarantini, era stato condannato per le violazioni dell’articolo 8 (“Diritto al rispetto della vita privata e familiare”) e dell’articolo 13 (“Diritto a un ricorso effettivo”) della Convenzione europea dei diritti dell’uomo a causa delle emissioni inquinanti dell’Ilva responsabili di mettere a rischio la salute dei cittadini tarantini.
La Corte, tornando sulla questione a causa di alcuni ricorsi di operai che chiedevano di vedersi riconosciuto un risarcimento in qualità di vittime, non ha rilevato “alcun fatto o argomento idoneo a convincerla a pervenire a una conclusione diversa sulla fondatezza delle doglianze dei ricorrenti in questione”. Ovvero che dal 2019 a al 2022 nessun rimedio è stato posto.
Il piano di conversione è fermo
La Corte ha ricordato che con la sentenza Cordella del 2019 aveva incaricato il Comitato dei ministri, organo decisionale del Consiglio d’Europa di monitorare la situazione ma, scrive nelle sentenze di oggi, “le autorità nazionali italiane non hanno fornito informazioni precise circa l’effettiva attuazione del piano ambientale, elemento essenziale affinché il proseguimento del funzionamento dell’acciaieria non rappresenti un rischio per la salute”. Solamente lo scorso 5 aprile l’Italia avrebbe presentato nuovi elementi riguardanti l’attuazione del piano ambientale, ormai troppo a ridosso della data previste per le sentenze.
Le condanne della #CEDU nei confronti dello Stato italiano per le emissioni dell’#Ilva sono una condanna a gran parte della classe politica che, per anni e con 12 decreti Salva-Ilva, ha sospeso i diritti costituzionali della popolazione tarantina. @AngeloBonelli1 [SEGUE] #5maggio
— Europa Verde – Verdi (@europaverde_it) May 5, 2022
La Corte ribadisce dunque, come già fatto nella sentenza 2019, che i lavori di bonifica dello stabilimento e del territorio interessato dall’inquinamento ambientale “occupano un posto primario e urgente” e che “il piano ambientale contenente l’indicazione delle misure e le azioni necessarie per assicurare la tutela dell’ambiente e della salute della popolazione deve essere attuato quanto prima”.
Non essendo stato ancora fatto tutto questo, la Corte è tornata a condannare l’Italia perché ancora una volta “il diritto dei ricorrenti interessati al rispetto della loro vita privata e il loro diritto a un ricorso effettivo, tutelati rispettivamente dagli articoli 8 e 13 della Convenzione, sono stati violati”.
Le conseguenze dell’Ilva di Taranto per cittadini e operai
In due dei quattro casi, la Corte ha ritenuto che l’accertamento della violazione fornisca di per sé equa soddisfazione del danno morale subito dai ricorrenti interessati; negli altri due ha invece disposto anche un risarcimento agli operai firmatari del ricorso, per danni morali. Secondo un recente rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità, prima dell’autorizzazione integrata ambientale Ilva causava da 270 a 430 morti premature ogni dieci anni, ma anche nel futuro l’impatto non cesserà: la stima, per i danni ormai irreversibili, di altri 50 morti premature nel prossimo decennio.
Giovanni Perelli, ex operaio dell’Ilva e promotore di uno dei quattro ricorsi, è soddisfatto per quella che ritiene “una sentenza importantissima, soprattutto perché nasce da un ricorso presentato dagli operai stessi, che in quella fabbrica hanno perso la salute e in alcuni casi anche la vita: perfino le Nazioni Unite hanno riconosciuto che la città di Taranto è stata sacrificata all’industria pesante”. In questi anni “abbiamo ascoltato tante chiacchiere ma finora di riqualificazione non si è vista l’ombra: ogni governo ha presentato il proprio piano di bonifica che poi è rimasto lettera morta”.
L’unica misura presa finora, spiega Perelli, è una copertura dell’impianto “che in modo poco intelligente è stata fatta di colore bianco, e che si tinge di rosso ogni volta che il vento spira scaricando le polveri tossiche dell’Ilva sul quartiere Tamburi“, quello più a ridosso dell’impianto.
Da anni a Taranto è in corso un aspro dibattito tra i sindacati confederali, che puntano a una riqualificazione dell’acciaieria, e i sindacati di base, che invece chiedono una riconversione completa: “Non vogliamo chiudere tutto, ma abbandonare l’acciaio che è ormai una cosa vecchia”, sottolinea Perelli, appartenente a questi ultimi come gli altri richiedenti. “Chiediamo che gli stessi operai siano coinvolti in un processo di bonifica che porterebbe moltissimi posti di lavoro per tantissimi anni, e un investimento su produzioni nuove e più ecosostenibili”. Invece, al momento, l’Italia è di nuovo condannata per assenza di una vera transizione ecologica.
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