La finanza ha la fondamentale responsabilità di traghettare i capitali verso la transizione energetica. Se ne è discusso al Salone del Risparmio 2022.
C’è ancora chi non investe il suo denaro per un mondo migliore. Ecco perché
Ci sono tanti modi per guadagnare contribuendo allo sviluppo sostenibile. Ma ci sono ancora degli scettici sull’impact investing: sentiamo le loro ragioni.
Spesso ci occupiamo di impact investing, cioè di quegli investimenti che vogliono ottenere un impatto sociale e ambientale positivo, concreto e misurabile, e al tempo stesso portare un ritorno economico per gli investitori. Lo facciamo perché, per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (Sdgs), ci vorranno capitali immensi: secondo il calcolo più accreditato, stiamo parlando di una cifra compresa tra i 3.300 e i 4.500 miliardi di dollari l’anno, tra il 2015 e il 2030. Ciò significa che i capitali privati non possono più stare a guardare, ma diventano fondamentali per costruire un mondo migliore. Per di più, quella di investire “a impatto” fino a qualche anno fa era una scelta pionieristica, ma oggi (con il moltiplicarsi degli strumenti finanziari sul mercato) è alla portata di tutti, anche di chi ha a disposizione poche centinaia di euro.
È anche vero, però, che c’è ancora una grossa fetta di investitori che ancora non si fidano dell’impact investing. E preferiscono continuare ancora con un approccio tradizionale, tenendo gli affari ben separati dalle iniziative per il bene del Pianeta e delle persone. Può essere interessante scoprire il perché.
Where do investors allocate #impinv capital? GIIN Annual Survey shows diversity in sectors: https://t.co/vlHZSgFdi7 pic.twitter.com/FjuKpAJSSQ
— GIIN (@theGIIN) 22 agosto 2017
Chi non crede nell’impact investing e perché
I dati arrivano dalle anticipazioni, in esclusiva per LifeGate, di “Investing for global impact”, un report realizzato dal Financial Times, in partnership con GIST (Global Impact Solutions Today) e con il supporto di Barclays. Lo studio ha interpellato 246 tra fondazioni e family office per indagare il loro approccio al mondo dell’impact investing e della filantropia. Stiamo parlando dunque di soggetti che gestiscono i capitali delle famiglie facoltose.
Giunto alla sua quarta edizione, per la prima volta il report ha interpellato (con domande specifiche) anche fondazioni e family office che ad oggi non sono attivi nella filantropia e nell’impact investing. In termini numerici, stiamo parlando all’incirca del 10 per cento del campione. Ma qual è il motivo del loro no all’impact investing? Al primo posto c’è il disinteresse da parte delle famiglie che rappresentano, seguito (a breve distanza) dalla mancanza di una consulenza specifica su questi temi. Le altre barriere sono la mancanza di precedenti, il timore che si tratti di iniziative a più alto rischio, la scarsa conoscenza delle opportunità a disposizione e, infine, la sfiducia.
Sempre più attenzione per la sostenibilità e la Csr
Questi dati senza dubbio fanno riflettere, ma non devono scoraggiare eccessivamente. Anche chi è ancora scettico di fronte all’impact investing, infatti, generalmente mostra un atteggiamento molto più attento e responsabile rispetto al passato. Il 93 per cento di questo gruppo, infatti, sceglie le aziende o istituzioni in cui investire anche prendendo in considerazione la possibilità che siano coinvolte in eventi dannosi per la reputazione. L’86 per cento analizza i loro fattori ambientali, sociali e di governance (Esg), il 79 per cento si concentra sulle loro politiche di Csr. Ciò significa, chiosano i ricercatori di “Investing for global impact”, che in ogni caso la sensibilità generale è cambiata. E ormai la stragrande maggioranza degli investitori ha capito che, nel valutare un’azienda o un’istituzione, non ci si può fossilizzare soltanto sul profitto, ma ci sono tanti elementi non finanziari da prendere in considerazione.
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