Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Una campagna pubblicitaria ha un impatto anche sull’ambiente, capiamo quale
Nel calcolare l’impatto ambientale di una campagna pubblicitaria bisogna considerare sia la CO2 prodotta dalla logistica che l’impulso al consumo
- L’impatto ambientale di una campagna pubblicitaria si può calcolare attraverso i suoi effetti diretti e indiretti rispetto alla produzione di CO2.
- Se da una parte infatti è importante capire quali sono gli aspetti più impattanti di una campagna a livello di produzione e logistica, è altrettanto importante valutare le conseguenze dell’impulso al consumo che questa genera.
- La moda è un terreno di gioco in cui ci sarebbe ampio margine per quella che viene definita “pubblicità acologica” ovvero quella che spinge ad adottare comportamenti responsabili nei confronti dell’ambiente. È anche un settore in cui la creatività può sopperire al dispendio di risorse, leggi alla voce “intelligenza artificiale”.
L’industria pubblicitaria è uno dei motori più influenti del cambiamento della società moderna, eppure l‘impatto ambientale di una campagna è spesso trascurato. La responsabilità che il settore ha nell’affrontare il cambiamento climatico potrebbe essere fondamentale per creare atteggiamenti più favorevoli all’ambiente. Il settore dell’advertising infatti ha un’impronta di carbonio diretta, ma contribuisce anche ai cambiamenti climatici stimolando una crescita economica insostenibile e promuovendo uno stile di vita consumistico dannoso per il clima, quando non facendo direttamente greenwashing in favore di prodotti e aziende inquinanti.
Allo stesso tempo, per via dell’enorme potere che risiede nelle sue mani, l’industria pubblicitaria può anche svolgere un ruolo fondamentale nella lotta ai cambiamenti climatici stessi. Può farlo in maniera diretta, tagliando le impronte di carbonio delle campagne pubblicitarie, ma anche combattendo il greenwashing e impegnandosi nella promozione di messaggi utili alla promozione di uno stile di vita ecologico. Allo stesso modo in cui la pubblicità tradizionale costituisce un impulso al consumo infatti, la pubblicità ecologica può spostare i consumatori da modelli di consumo dannosi per il clima verso una cultura a basse emissioni di carbonio, fornendo informazioni accurate e facendo leva su processi psicologici come la soddisfazione morale e la vita a contatto con la natura. Il valore di mercato dell’intero comparto è attualmente stimato in circa 600 miliardi di dollari, ma aumenta ogni anno.
Il potere persuasivo di una campagna
Nel saggio Perspectives: Advertising and climate change – Part of the problem or part of the solution? (Prospettive: Pubblicità e cambiamento climatico – Parte del problema o parte della soluzione?) l’economista Patrick Hartmann sostiene infatti che gli individui che danno priorità a valori e obiettivi materialistici non solo consumano di più, ma agiscono anche in modi meno rispettosi dell’ambiente. Il consumo di carne da parte di un cittadino americano medio, ad esempio, è passato da 89 chili all’anno negli anni ’60 a 124 nel 2008. Nonostante l’aumento delle vendite di prodotti alimentari a base vegetale, si prevede che il consumo globale di carne aumenterà del 14% entro la fine del decennio. Per non parlare della potenza di fuoco di Shein, brand di ultra fast fashion capace di aver generato, nel solo 2022, 30 miliardi di dollari con un aumento del 91% rispetto all’anno precedente.
Purpose Disruptors, un’associazione che si pone come obiettivo quello di spingere l’allineamento dell’industria pubblicitaria agli obiettivi dell’IPCC di un riscaldamento globale di 1,5 gradi, ha definito con il termine “emissioni pubblicitarie” le emissioni di CO2 prodotte dall’assorbimento delle vendite generate dalla pubblicità. Tale pubblicità ad alta intensità di carbonio comprende i combustibili fossili, i trasporti come quelli automobilistici, il tessile e la carne rossa. Secondo i loro calcoli, le emissioni pubblicitarie nel Regno Unito sono aumentate dell’11 per cento dal 2019 al 2022, producendo 208 milioni di tonnellate di emissioni di CO2. Ciò equivale ad aggiungere ogni anno il 28 per cento in più all’impronta di carbonio di ogni cittadino britannico. Mentre il settore dovrebbe ridurre le emissioni a 93 milioni di tonnellate entro il 2030 per essere in linea con l’Accordo sul clima di Parigi, la tendenza attuale vedrebbe invece il settore salire a 273 milioni di tonnellate.
La moda è uno dei terreni su cui si potrebbe giocare la battaglia di una pubblicità ecologica, se così la vogliamo chiamare. Sia perché le emissioni prodotte per realizzare una campagna fotografica sono altissime, ne parleremo nel dettaglio, e sia perché è un terreno in cui l’impatto comunicativo dell’immagine è molto forte. Sono molti i brand che hanno fatto della moda sostenibile il loro campo d’azione ad aver utilizzato negli anni, campagne che combinano l’estetica con la morale, unendo il fine ispiratore con quello pratico. Raccontare una storia, emozionare e riunire una comunità intorno a un certo tema è il potere in mano alle campagne pubblicitarie e, alcune del settore moda in particolare, hanno rappresentato un cambio di rotta evidente nel settore. In particolare tre campagne sono state particolarmente incisive sotto questo punto di vista: quella di Patagonia intitolata “Don’t buy this jacket”, che invitava appunto alla responsabilità nell’acquisto e rilasciata in occasione del Black Friday del 2011, quella di Stella McCartney del 2017 ambientata in una discarica in Scozia e le campagne rilasciate ogni anno da Ecoalf, brand spagnolo che ha fatto del motto “Because there is no planet B” il suo payoff.
L’impatto ambientale di una campagna
Al di là del messaggio, quello di cui bisogna tenere conto, è la mole di emissioni di CO2 causata dall’organizzazione materiale e logistica di una campagna. Amazed by è un’agenzia di produzione che ha recentemente ottenuto la certificazione ambientale ISO 14001, nel 2022, e l’ha confermata per il 2023. Con uno dei suoi membri, Carlo Paterno’, abbiamo provato a ricostruire quali siano i processi più inquinanti e le contromisure che si possono adottare per minimizzarne l’impatto. «Il 75 per cento della CO2 prodotta da una campagna è generata da trasporti e viaggi, sia di persone che di merci: questo succede sia quando si scatta in una location particolare voluta dal cliente, magari scelta per l’impatto visivo o per quello che evoca, ma anche quando si scatta in studio: spesso succede infatti che il fotografo voluto dal brand sia basato a New York, o a Londra, e quindi bisogna farlo volare in Italia. Lui, a sua volta, magari lavora solo con determinati truccatori o stylist: vuole assolutamente loro e magari arrivano uno da Londra e l’altro ancora dagli States. Poi ci sono le celebrities, che generalmente non si spostano e impongono al gruppo di muoversi, quindi se il talent di turno vive a Los Angeles la produzione con l’intera troupe prende armi e bagagli e va in California. Comunque, al di là di chi si sposta, in generale si viaggia moltissimo. Noi per una campagna scattata in Sicilia, ad esempio, abbiamo movimentato 60 persone che hanno volato da Parigi: contando anche noi da Milano e altre maestranze si sono spostate in totale circa 140 persone».
Nel computo dei trasporti poi vengono considerate anche le merci movimentate: nel caso ad esempio di campagne realizzate per clienti non moda c’è bisogno di ricevere abiti, che vengono quindi poi anche resi e che necessitano di imballaggi. «Questo va a impattare invece il calcolo dei rifiuti che viene effettuato in litri». Altri aspetti importanti da considerare poi sono gli allestimenti, che a volte possono essere riutilizzati, come nel caso di uno sfondo bianco, altre volte no e vengono dismessi. Infine un’altra voce a livello di impatto ambientale è il catering: sui set, che solitamente durano molte ore o giornate intere, viene procurato cibo e da bere per tutti. «Noi cerchiamo sempre di prediligere catering locali e che utilizzino il più possibile materie prime del posto» spiega Sara Maubert di Amazed By. «Inoltre, quando non è il cliente specificatamente a richiedere la carne, privilegiamo menù vegetariani. Operando queste scelte i nostri catering non hanno un impatto così grosso, in più non utilizziamo plastica, ma dove possiamo piatti di ceramica e posate ordinarie, oppure tutto compostabile e biodegradabile. L’acqua è sempre in vetro e, sui set dove questo è vietato, portiamo i nostri brick di carta». Amazed By ha efficientato al massimo i propri processi, sia interni in ufficio che sui set, E, con l’aiuto di Lifegate, ha elaborato un foglio di calcolo renda possibile, alla fine di ogni campagna pubblicitaria, valutare esattamente quello che è stato l’impatto in termini di tonnellate di CO2, in modo da poter poi intervenire in offsetting, partecipando a dei progetti di compensazione.
L’intelligenza artificiale potrebbe rappresentare una soluzione?
Una possibile soluzione per tagliare i costi, anche e soprattutto in termini ambientali, di una campagna, è quella di utilizzare l’intelligenza artificiale ed è quella che è stata adottata da Edzard Van der Wyck e Michael Wessely, i co-fondatori di Sheep Inc. Il marchio, specializzato in maglieria di lusso, è noto per il suo approccio all’avanguardia e per l’impegno verso la sostenibilità e, per realizzare l’ultima campagna, ha sfruttato la potenza dell’intelligenza artificiale, combinando la fotografia dettagliata dei prodotti con il design generato al computer, per creare immagini straordinarie. Grazie a questa tecnologia, l’impatto in termini di emissioni di carbonio e di rifiuti è stato minimo e, inoltre, ha permesso loro di rendere il loro fornitore di materiali, ovvero le pecore stesse, centrale nella loro campagna senza procurare loro uno stress inutile ma salvaguardando il loro benessere.
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