Appassionarsi a nuovi trend e rifarsi il guardaroba stagionalmente può anche essere divertente, ma che impatto ha sull’ambiente?
Qual è l’impatto ambientale della Fashion week e come ridurlo
È veramente possibile valutare l’esatto impatto ambientale di una manifestazione come la Settimana della moda? E cosa si può fare per ridurlo?
- Durante il Mese della moda, cioè la combinazione delle quattro Fashion week più importanti al mondo, vengono emesse 241mila tonnellate di CO2.
- È doveroso riflettere seriamente sul futuro di eventi come le Settimane della moda in un momento storico in cui sono gli stessi protagonisti del sistema a volerlo cambiare.
- Apripista in questo senso sono state le Fashion week di Helsinki e Copenaghen, ma anche la Camera nazionale della moda italiana ha avviato un percorso già da parecchio tempo verso un futuro più green.
Tenere illuminata la torre Eiffel per tremila anni, o l’intera Times square per 58, ha più o meno lo stesso impatto ambientale del Fashion month, ovvero la combinazione delle Fashion week delle città più rilevanti per il mondo della moda: Parigi, Milano, New York e Londra. Sono infatti 241mila le tonnellate di CO2 emesse durante il Mese della moda stando a Zero to market, uno studio del 2020 realizzato dalla fashion tech company Ordre.
Redatta in collaborazione con Carbon trust, la ricerca ha prodotto questo risultato sommando le emissioni annuali di tutti i trasporti, che costituiscono parte integrante del processo di acquisto all’ingrosso, e misurando la carbon footprint di oltre settemila persone tra buyer e designer che partecipano abitualmente alle quattro Settimane della moda prese in esame.
L’impronta carbonica delle Settimane della moda
“Le emissioni calcolate da Carbon trust nel rapporto sono solo una parte marginale del carbon footprint dell’industria della moda. Tuttavia, la ricerca fornisce un’immagine significativa degli impatti del settore sulle emissioni di carbonio che, dati alla mano, potrebbe influenzare positivamente gli stakeholder del fashion system e portarli a fare scelte più consapevoli, professionalmente e personalmente”, argomenta Leonardo Boeri, business development executive per il sud Europa di Carbon trust.
“Per ridurre gli impatti ambientali di questo tipo di eventi si dovrebbe puntare a ridurre le emissioni dei viaggi, preferendo il treno all’aereo quando possibile ed optando per l’uso di veicoli elettrici. Per evitare gli spostamenti in città si potrebbero istituire degli hub dedicati e programmare lì gli eventi, mentre per quanto riguarda le scenografie sarebbe buona norma ridurre al minimo la produzione di materiali monouso, evitando in primo luogo attrezzature non riciclabili e incoraggiando l’uso condiviso di sedi e luoghi per spettacoli durante la settimana”.
Molti gli aspetti da tenere in considerazione
La stima di Ordre non è che la punta dell’iceberg: oltre ai buyer e agli stilisti, a spostarsi tra le varie località ci sono anche giornalisti, modelle, fotografi, make up artist, hair stylist, allestitori, ospiti internazionali e molti altri. Non solo: eventi come le Settimane della moda comportano un massiccio spostamento di persone anche all’interno delle singole città per raggiungere gli show, che si tengono in location diverse e che, per loro stessa natura, hanno un fabbisogno energetico altissimo; basti pensare solo alle luci impiegate per ogni singola passerella e agli allestimenti, spesso creati ad hoc.
“Lo studio di Ordre si è concentrato soprattutto sugli spostamenti degli addetti ai lavori: misurare in maniera esatta l’impronta carbonica di una o più Fashion week è molto complesso perché bisogna considerare molti dati, per esempio: quante persone realmente hanno partecipato, i trasporti che hanno usato per raggiungere gli eventi, i consumi di energia, i catering, i rifiuti generati nonché tutte le attività coinvolte, dalla preparazione allo smontaggio. Inoltre, stiamo parlando di un settore, quello della moda, in cui la misurazione delle emissioni è già di per sé particolarmente complessa per l’ampiezza e la varietà delle filiere produttive dei processi”, aggiunge Andrea Maggiani, fondatore e ceo di Carbonsink, società specializzata in strategie climatiche da poco entrata nel gruppo internazionale South pole.
Le Fashion week, così come le conosciamo, sono eventi che non ci possiamo più permettere dal punto di vista ambientale. La ricerca di Ordre, per quanto parziale, lo evidenziava chiaramente già nel febbraio del 2020, poche settimane prima dello scoppio dell’emergenza sanitaria legata alla pandemia da Covid-19, giusto un attimo prima che il confinamento globale imponesse lo stop forzato di ogni qualsivoglia evento. Nei due anni in cui le sfilate in presenza sono state pochissime e contingentate e sono stati sperimentati metodi alternativi, come gli show digitali, sembrava che si potesse in qualche modo trovare la quadra per abbattere drasticamente il dispendio energetico legato per lo meno a questo aspetto del fashion system, ma due anni dopo e finite le restrizioni nella realtà poco è cambiato.
Il modello di Helsinki e Copenaghen
La crisi climatica però è ancora lì e ci impone di riflettere seriamente sul futuro di eventi come le Settimane della moda in un momento storico in cui sono gli stessi protagonisti del sistema a volerlo cambiare. Nel momento in cui brand e designer stanno ripensando la loro attività per diventare più sostenibili, suona come una stortura non fare lo stesso con le sfilate. Le cose devono evolversi, ma esiste un’alternativa migliore e più ecologica che funzioni davvero? Apripista in questo senso sono state le Fashion week di Helsinki e Copenaghen, ma anche la Camera nazionale della moda italiana (Cnmi) ha avviato già da parecchio tempo il percorso verso un futuro più green.
La kermesse di Helsinki è stata la prima a proporsi ed essere riconosciuta come sostenibile grazie a tre princìpi cardine fondamentali: attenzione alla produzione fin dalla fase embrionale di progettazione, coinvolgimento di designer che soddisfino determinati criteri di sostenibilità e, non da ultimo, la valutazione ambientale della location scelta per gli show, che si traduce nell’esaminare quanta acqua ed energia vengono utilizzate e nell’eventuale ricorso a fonti di energia rinnovabili, come l’eolico e il solare. Per quanto riguarda il cibo offerto durante la manifestazione, l’indicazione è di prediligere menù vegani e ingredienti di stagione.
Per quanto riguarda la Fashion week di Copenhagen, invece, a partire dal 2023 i brand che vi intendono partecipare dovranno necessariamente soddisfare determinati requisiti di sostenibilità. Gli stilisti potranno guadagnare punti in base alle loro pratiche di progettazione, alle condizioni di lavoro e alla produzione della sfilata o della presentazione, e se non raggiungeranno una soglia minima verranno giudicati non idonei alla partecipazione.
Le iniziative green della Fashion week di Milano
Per l’Italia la questione è leggermente più complicata, sia per l’importanza dei marchi presenti nel calendario sia per la conformazione stessa della città, ma la Cnmi ha iniziato a mettere in agenda iniziative per una svolta più sostenibile del comparto già a partire dal 2012, quando è stato redatto il Manifesto per la sostenibilità della moda italiana che ha visto fin da subito coinvolti oltre duecento brand. “Da allora sono seguite iniziative periodiche come tavoli di lavoro tecnici, pubblicazione di documenti e linee guida per l’intero settore ed eventi di formazione rivolti ai designer”, spiega il presidente Carlo Capasa. “Per quanto riguarda le Fashion week di Milano, da diverse edizioni diamo spazio a brand focalizzati sul tema della sostenibilità, pianificando sezioni ad hoc all’interno della nostra settimana di show e del nostro Fashion hub. Da cinque anni ospitiamo Designer for the Planet, evento in cui cinque marchi, il cui lavoro si basa su rigorosi criteri di sostenibilità ambientale, presentano le loro collezioni”.
Inoltre, per quanto riguarda la sostenibilità sociale, durante questa edizione verrà inaugurato un nuovo spazio all’interno del Fashion hub: Designer for ethical fashion, dedicato al tema della moda etica e sociale con particolare attenzione alle donne svantaggiate, alle vittime di violenza, agli immigrati e ai rifugiati. Infine, tutti gli spazi Cnmi, come il Fashion hub e la sala di presentazione, sono stati allestiti con materiali di riciclo e di riuso e, negli ultimi anni, si è passati al solo accredito digitale, eliminando quello cartaceo per ridurre lo spreco di carta. “Consci dell’inquinamento derivante dai viaggi, abbiamo mantenuto e implementato la nostra piattaforma digitale che permette di seguire la Fashion week in tutto il mondo da remoto. La spinta sul digitale è stata data dalla pandemia, ma riteniamo essere diventata uno strumento imprescindibile anche in ottica di sostenibilità e inclusione”, conclude Capasa.
Uno spiraglio nel comparto italiano della moda e del lusso
Nell’aprile del 2021, Carbonsink ha prodotto un report dal titolo Climate changed. Time to act interamente dedicato al settore della moda e del lusso in Italia. Lo studio si concentra su un campione di novanta aziende di cui sono state raccolte e valutate le informazioni pubblicamente disponibili (come i report di sostenibilità e le dichiarazioni non finanziarie) con lo scopo di migliorare la comprensione di come il settore stia affrontando le sfide poste dalla transizione climatica.
Ne è emerso che oltre il 90 per cento delle aziende esaminate considera i cambiamenti climatici rilevanti per la propria attività e ha iniziato a muovere i primi passi verso una produzione più green. La strada è sicuramente lunga e in salita, ma con lo sforzo di tutti i player del settore un futuro fatto di brand e manifestazioni più coscienziosi dal punto di vista ambientale è certamente possibile oltre che auspicabile.
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