
Temendo la presenza di rifiuti tossici, la Groenlandia ha interrotto l’estrazione dell’uranio. Ora potrebbe essere costretta a ricominciare. O a pagare 11 miliardi di dollari.
Secondo il nuovo rapporto di Amnesty International Apple è l’azienda tecnologica più impegnata nei controlli sulla provenienza di materie prime come il cobalto.
Il costo degli smartphone e degli altri dispositivi elettronici che hanno ormai occupato un ruolo centrale nelle nostre vite è ancora molto elevato, più di quanto siamo soliti pensare. Ignoriamo infatti, o preferiamo farlo, che le materie prime necessarie per realizzare tali dispositivi provengono spesso da aree caratterizzate da forte instabilità politica e sociale e sono state estratte sfruttando il lavoro minorile. Nella Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, migliaia di bambini sono costretti a lavorare in condizioni terribili nelle miniere per estrarre il cobalto, raro minerale indispensabile per la fabbricazione di batterie elettriche. Il nuovo rapporto di Amnesty International, Time to Recharge, analizza proprio la sostenibilità e il rispetto per i diritti umani dei colossi del settore della tecnologia e della mobilità, come Apple, Samsung Electronics, Dell, Microsoft, Bmw, Renault e Tesla.
Il rapporto ha esaminato 29 aziende e valutato il loro operato per fermare le violazioni dei diritti umani presenti nella catena dei fornitori di cobalto. Il rapporto segue un analogo studio pubblicato nel 2016 nella speranza di trovare miglioramenti. “A quasi due anni di distanza alcune delle più ricche e potenti aziende del mondo stanno ancora accampando scuse perché non hanno indagato sulla loro catena di fornitori – ha dichiarato Seema Joshi, direttrice del programma Economia e diritti umani di Amnesty International. – Persino quelle che lo hanno fatto, non rendono noti i rischi per i diritti umani e le violazioni che hanno riscontrato. Se le aziende non sanno da dove viene il cobalto, figuriamoci i loro clienti”.
L’organizzazione umanitaria ha giudicato le aziende sulla base di cinque criteri che riflettono standard internazionali, tra cui l’obbligo di svolgere i controlli sulla catena di approvvigionamento e quello di essere trasparenti sui rischi collegati ai diritti umani. I risultati sono stati sconfortanti, nessuna delle 29 imprese ha infatti intrapreso azioni adeguate per rispettare gli standard.
Nonostante la bocciatura collettiva Apple è risultata essere l’azienda più impegnata nei controlli sulla provenienza e la lavorazione dei materiali necessari per la fabbricazione dei propri prodotti. La società di Cupertino è infatti la prima azienda ad aver pubblicato la lista dei suoi fornitori di cobalto e dal 2016 sollecita l’impresa cinese Huayou Cobalt, che gestisce quasi tutto il cobalto estratto in Congo, a individuare ed eliminare le violazioni dei diritti umani lungo la catena dei fornitori.
Oltre ad Apple alcune aziende, come Dell e Hp, hanno iniziato a indagare sui propri fornitori e adottato politiche più rigorose per garantire il rispetto dei lavoratori, molte grandi società invece non hanno mostrato alcun progresso. Tra queste Microsoft che non ha messo a disposizione dei propri clienti informazioni sui suoi fornitori, continuando ad agire in maniera poco limpida.
Secondo il rapporto di Amnesty i produttori di veicoli elettrici sono ancor meno trasparenti circa il proprio approvvigionamento di cobalto. Renault e Daimler non hanno soddisfatto neanche i requisiti minimi sulla trasparenza, mentre tra le aziende esaminate Bmw è risultata la migliore ma non ha ancora pubblicato i nomi delle aziende che fondono e raffinano il cobalto da cui si rifornisce. “Il cobalto è un componente fondamentale nello sviluppo della cosiddetta tecnologia verde – ha affermato Joshua Rosenzweig, consulente di Amnesty International su Economia e diritti umani – è più importante che mai che le aziende che le producono si comportino in modo trasparente”.
Siamo anche su WhatsApp. Segui il canale ufficiale LifeGate per restare aggiornata, aggiornato sulle ultime notizie e sulle nostre attività.
Quest'opera è distribuita con Licenza Creative Commons Attribuzione - Non commerciale - Non opere derivate 4.0 Internazionale.
Temendo la presenza di rifiuti tossici, la Groenlandia ha interrotto l’estrazione dell’uranio. Ora potrebbe essere costretta a ricominciare. O a pagare 11 miliardi di dollari.
Un elenco delle parole che l’amministrazione Trump sta scoraggiando o cancellando da siti e documenti delle agenzie federali, legate al clima e ai diritti.
L’organizzazione della Cop30 nella foresta amazzonica porta con sé varie opere infrastrutturali, tra cui una nuova – contestatissima – autostrada.
L’ex presidente delle Filippine è accusato di crimini contro l’umanità per le migliaia di omicidi extragiudiziali nell’ambito della sua lotta alla droga.
Incidente nel mare del Nord tra una petroliera e una nave cargo: fiamme e fumo a bordo, si teme lo sversamento di combustibile in mare.
Saudi Aramco, ExxonMobil, Shell, Eni: sono alcune delle “solite” responsabili delle emissioni di CO2 a livello globale.
A23a, l’iceberg più grande del mondo, si è fermato a 80 km dalla Georgia del Sud, dove ha iniziato a disgregarsi.
Una causa intimidatoria per fermare chi lotta per la difesa delle risorse naturali e contro le giganti del petrolio. È quanto sta vivendo Greenpeace per le proteste contro il Dakota access pipeline.
Si è appena conclusa a Roma la seconda parte della Cop16 sulla biodiversità. Tre giorni di negoziati che sembrano portare finalmente al raggiungimento di nuovi obiettivi per la tutela del Pianeta, sperando che non sia troppo tardi.