La campagna Vote for animals, promossa da Lav e altre organizzazioni, mira a far assumere a candidati e partiti un impegno maggiore sul tema dei diritti animali.
Una nuova inchiesta negli allevamenti di salmoni scozzesi svela le crudeltà che devono subire
Dieci milioni di salmoni scozzesi muoiono prematuramente ogni anno negli allevamenti intensivi. Lo rivela un report pubblicato da una rete di ong in 30 paesi.
Dieci milioni è un numero talmente grande che è quasi impossibile da immaginare. È l’equivalente dell’intera popolazione della Lombardia e un po’ più di quella della città di New York. Ma è anche la cifra di salmoni scozzesi che ogni anno muoiono prematuramente nel silenzio degli allevamenti intensivi. È quanto emerge dall’indagine guidata dall’organizzazione per il benessere degli animali d’allevamento Compassion in world farming e sostenuta da una rete di ong provenienti da 30 paesi.
I salmoni soffrono silenziosamente, nascosti alla vista dei consumatori, in crudeli allevamenti subacquei in tutta la Scozia. Anche investigatori esperti sono rimasti scioccati da quello che hanno trovato.
Lo scopo dell’inchiesta, intitolata Gabbie subacquee, parassiti e pesci morti: perché è necessaria una moratoria sull’espansione dell’allevamento dei salmoni in Scozia, è proprio quello di chiedere l’inserimento di una moratoria sull’espansione di quest’industria, denunciando tutto quello che cerca di nascondere, dalle violenze sugli animali, all’inquinamento ambientale.
L’indagine negli allevamenti intensivi scozzesi
Dopo aver esaminato i filmati, girati nell’arco di un anno in 22 allevamenti scozzesi, gli investigatori hanno scoperto che una parte considerevole dei pesci vivono in condizioni incommentabili, stipati in gabbie così sporche da non riuscire nemmeno a respirare correttamente. Molti di loro presentano deformità alla spina dorsale, abrasioni, lesioni, infezioni alla bocca e agli occhi, danni alle pinne e alle branchie e alghe che crescono sulle ferite aperte.
Confinare le specie carnivore in gabbie subacquee e impoverire i nostri oceani di pesce selvatico per nutrirle, è pura follia.
Oltre il 28 per cento degli avannotti (i piccoli di salmone) messi in gabbia ogni anno muore durante la fase di allevamento. Un salmone su quattro non sopravvive al periodo di ingrasso e si teme che queste cifre siano comunque sottostimate.
I salmoni scozzesi vengono divorati dai parassiti
All’interno di queste strutture, si sono diffuse anche epidemie di pidocchi di mare, parassiti che si cibano delle squame, del sangue e del muco dei salmoni, che non hanno scampo rinchiusi in queste celle sottomarine. E i trattamenti anti-pidocchi sono solo un’ulteriore causa di dolore, e perfino di morte, per questi pesci, dato che consistono in bagni con prodotti chimici e procedure che prevedono di esporre gli animali a getti di acqua estremamente calda o fredda.
Sono proprio le condizioni di vita nelle gabbie e l’assenza di garanzie del benessere di questi salmoni a creare un terreno fertile per la proliferazione di malattie e parassiti. Stando ai dati citati nel report e pubblicati nel 2020 dal Fish health inspectorate, oltre quattro dei sei milioni di casi di morti registrate nel 2019 (ovvero il 64 per cento) erano da attribuirsi a malattie e ai relativi trattamenti.
La tossicità degli allevamenti intensivi
Questi allevamenti, oltre ad essere responsabili delle torture subite dai salmoni, rappresentano anche una minaccia notevole per la tutela dell’ambiente. Gli investigatori hanno infatti scoperto una serie di cassonetti pieni di pesci morti facilmente raggiungibili dalla fauna selvatica, cosa che potrebbe rappresentare un enorme rischio per la biosicurezza.
Milioni di tonnellate di pesce catturato in natura sono ridotte a farina di pesce e olio di pesce per nutrire i pesci negli allevamenti intensivi.
Il report evidenzia anche come le popolazioni selvatiche di salmone e trota risentano dei danni causati dagli allevamenti scozzesi, in quanto questi ultimi contribuiscono alla propagazione di pidocchi di mare e malattie anche in mare aperto. “L’accoppiamento tra esemplari di salmone fuggiti dagli allevamenti ed esemplari selvatici desta poi molte preoccupazioni”, si legge, “in quanto potrebbe causare alterazioni al pool genetico di questi ultimi e comprometterne le condizioni fisiche e l’adattabilità ai cambiamenti ambientali”.
Inoltre, i rifiuti prodotti da questi stabilimenti stanno cambiando la chimica dei sedimenti e uccidendo la vita marina sul fondo del mare. Per non parlare del fatto che potrebbero portare a fioriture di alghe dannose. Anche i medicinali e le sostanze chimiche, come gli antibiotici e gli insetticidi, vengono rilasciati nell’ambiente. Malgrado molti di questi siano noti per essere tossici per i pesci e altri organismi marini, così come per gli uccelli e i mammiferi, vengono comunque usati.
Il business dei salmoni scozzesi
Ancora una volta, tutto questo è permesso dagli enormi profitti che l’industria ittica riesce a generare, che come sempre mettono a tacere anche il più basilare buonsenso. La Scozia è il terzo produttore mondiale di salmone atlantico d’allevamento, dopo la Norvegia e il Cile: solo nel 2019 ha venduto 38 milioni di pesci, esportandoli in oltre 50 paesi. Il report prende in esame la crescita esponenziale che questi allevamenti hanno conosciuto negli ultimi 10 anni, che si aggira intorno al 40 per cento.
Compassion in world farming denuncia come, malgrado tutti i problemi sopraelencati, non ci sia la minima volontà di ridurre il ritmo di produzione. Al contrario si sta addirittura pensando di aumentarlo. Sono state 203.881 le tonnellate di salmone atlantico prodotte nel 2019, ma gli obiettivi di crescita del settore prevedono un incremento annuo tra le 300mila e le 400mila tonnellate fino al 2030. Questi numeri equivalgono un aumento della produzione pari al 47-96 per cento.
Considerati i numerosi problemi ambientali e di benessere all’interno dell’industria scozzese del salmone, i piani di espansione sono completamente irresponsabili.
Il ruolo dell’Italia
In tutto ciò, l’Italia è fra i primi dieci importatori di salmone scozzese. Significa che con ogni probabilità quello che arriva nel nostro paese proviene da una delle cinque grandi aziende che allevano il 96 per cento dei salmoni: Cooke Aquaculture, Grieg Seafood, Mowi, Scottish Sea Farms e The Scottish Salmon Company, tutte oggetto dell’indagine e responsabili di quando abbiamo letto finora.
Infatti, numerose associazioni italiane che lottano per i diritti animali e la conservazione della biodiversità hanno firmato una lettera aperta al governo scozzese per chiedere l’inserimento di una moratoria sull’espansione di quest’industria, al fine di eliminare gradualmente l’allevamento intensivo del salmone. Tra queste figurano Animal equality, Animalisti italiani, Animal law, Ciwf Italia onlus, Enpa, Essere animali, Jane Goodall institute Italia, Marevivo e Sea shepherd Italia.
Dopo aver letto attentamente questa indagine è fondamentale riconoscere che ci troviamo davanti a un business che preferisce far morire dieci milioni di pesci ogni anno – e far “vivere” i restanti in queste condizioni – piuttosto che trovare una soluzione. Economicamente parlando, probabilmente non gli conviene nemmeno salvarli, perché dieci milioni di morti sono briciole per un’industria che ragiona in tonnellate. Ed è questo il problema che accomuna tutti gli allevamenti intensivi: hanno raggiunto una portata tale che risulta difficile anche solo immaginare ciò che fanno e gli effetti che stanno provocando non solo sull’ambiente, ma soprattutto sui valori base della nostra civiltà. Queste strutture non stanno solamente annullando l’identità degli animali che detengono, ma stanno rendendo apatica l’intera umanità, privandola di valori come la compassione e il rispetto per l’altro che sono fondamentali se vogliamo combattere la crisi climatica e costruire una società più giusta e sostenibile.
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