Nella regione del Sahel, sconvolta da conflitti inter comunitari e dai gruppi jihadisti, 29 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Indice globale della fame 2018, Daniela Bernacchi di Cesvi racconta il legame con le migrazioni
L’affamato, il migrante, il rifugiato sono spesso la stessa persona. È quanto rivela l’Indice globale della Fame 2018. Daniela Bernacchi di Cesvi spiega il legame tra fame e migrazioni.
Fame e migrazioni forzate sono strettamente connesse. Con questo messaggio Cesvi ha presentato l’11 ottobre, l’Indice globale della fame 2018 (Global hunger index, Ghi). E lo ha fatto attraverso una mappa in cui i Paesi sono colorati “per gravità”. La maggior parte delle persone che abbandona le proprie case è costretta da fame, denutrizione, malnutrizione, estrema povertà. Tali ragioni si intrecciano il più delle volte con altri problemi: guerre, terrorismo, instabilità economica e politica, catastrofi ambientali e naturali. La fame e l’insicurezza alimentare, inoltre, possono ripresentarsi proprio nei luoghi di arrivo dei migranti: campi profughi, ripari informali, centri di detenzione, zone disagiate dei loro Paesi per gli sfollati interni.
In tali contesti diventa sempre più difficile distinguere – come prevede il diritto internazionale – fra rifugiati che scappano da persecuzioni e guerre, e migranti economici. Secondo il Ghi 2018 nel mondo soffrono la fame 815 milioni di persone, l’11 per cento della popolazione.
A questa stima si è arrivati attraverso quattro indicatori: denutrizione, deperimento infantile, arresto della crescita e mortalità dei bambini sotto i cinque anni. Le situazioni più gravi si trovano in Asia meridionale e Africa subsahariana. Sebbene ci sia stato un miglioramento nella lotta alla fame a partire dal 2000, negli ultimi tre anni, come già evidenziato da un recente rapporto delle Nazioni Unite, questa è tornata ad aumentare in alcune aree geografiche. L’Obiettivo Fame Zero dell’Onu da raggiungere entro il 2030 potrebbe essere rispettato solo da 29 Paesi su 79 che presentano un livello di fame moderato, grave, allarmante ed estremamente allarmante.
Resilienza e sviluppo economico. L’intervento di Cesvi contro fame e malnutrizione
India, Repubblica Centrafricana, Somalia, Zimbabwe, Libia. Con Daniela Bernacchi, direttrice generale e amministratore delegato di Cesvi dal 2015, abbiamo analizzato i luoghi della fame, le cause che la determinano e gli interventi che si dovrebbero attuare affinché nessuno sia costretto a scappare dall’insicurezza alimentare: “Chi si muove per fame o motivi economici è di sicuro meno tutelato rispetto a chi scappa da conflitti e oggettivamente non può rientrare nella propria casa”, spiega Bernacchi.
“Cesvi – continua l’ex dirigente di WeWorld e responsabile per vent’anni del marketing di importanti aziende – punta molto sulla resilienza nella prima fase di emergenza, ovvero la capacità dei locali di resistere a situazioni avverse. In un’ottica a lungo termine, però, la resilienza va collegata allo sviluppo economico, perché nessuno lascia la propria casa serenamente. Laddove fosse possibile, i migranti cosiddetti economici non se ne andrebbero”.
Perché fame e migrazioni forzate sono due sfide interconnesse?
In un contesto di migrazione forzata, non pianificata, le persone sono estremamente vulnerabili. Su 68,5 milioni di individui costretti a lasciare la propria casa, 40 milioni sono sfollati interni, che restano nel loro Paese (come in Somalia) o nella loro area geografica, in situazioni altrettanto povere e non migliori da quelle da cui provengono.
La fame e l’insicurezza alimentare sono, secondo vari rapporti come quello del World food programme, i motivi principali che spingono le persone a fuggire, anche attraverso il mar Mediterraneo. Tuttavia, non bastano a ottenere lo status di rifugiato.
Vero. Ci sono le Convenzioni e i Trattati internazionali, ma ogni Stato dà dei permessi in base alla sua normativa locale. Chi si muove per fame o motivi economici è di sicuro meno tutelato rispetto a chi scappa da conflitti, che ha un’oggettiva impossibilità a rientrare nella propria casa, magari andata distrutta nel frattempo. Si pensa, invece, che chi fugge per motivi economici possa sempre ritornare con maggiore facilità, anche grazie a programmi di sviluppo.
Ma non è sempre così. Le cause delle migrazioni sono intrecciate. Negli ultimi due anni i siriani sono fuggiti sia dalla guerra che dalla fame.
Sì, ma questo è il quadro di realtà. Si tratta di un tema politico, oltre che umanitario. Per esempio, per aiutare gli sfollati interni bisogna avere cura dei più vulnerabili, come donne e bambini, e implementare politiche agricole integrate con vari attori sociali. Cesvi punta molto sullo sviluppo economico, perché nessuno lascia la propria casa serenamente. Laddove fosse possibile, i migranti economici non se ne andrebbero.
La regione dell’Asia meridionale registra l’indice fame più elevato del 30,5. Che cos’è il deperimento infantile e perché in India, sesta potenza economica mondiale, è del 21%?
Il deperimento infantile indica quei bambini al di sotto dei 5 anni che hanno un peso insufficiente in rapporto all’altezza. Mancano di calorie, vitamine, tutto ciò che può farli crescere in modo adeguato. Il dato indiano va intrecciato con l’indice di disuguaglianza, fenomeno in crescita a partire dagli anni Ottanta (vedi rapporto Oxfam, ndr.). Oggi ritroviamo all’interno della stessa area geografica o addirittura dello stesso Stato grandi concentrazioni di ricchezza da una parte e di povertà dall’altra. In Guatemala il tasso di arresto della crescita varia dal 25% al 70% a seconda della zona. Tale divario dipende dallo sviluppo economico del Paese e dalle politiche governative.
Nell’ultimo periodo le cronache indiane hanno riportato un aumento di morti per fame e allo stesso tempo una maggiore diffusione dell’obesità. Due facce dello stesso disagio?
Cesvi ci tiene a sottolineare che l’obesità è un’altra forma di malnutrizione. Spesso i bambini obesi mangiano cibi di bassa qualità, il junk food, e appartengono a fasce di popolazione non particolarmente agiate. Non necessariamente l’obesità è sinonimo di ricchezza.
Nell’Africa a sud del Sahara si trovano le altre situazioni più gravi. Cosa accade in Repubblica Centraficana che ha il peggiore GHI del pianeta: un “estremamente allarmante” di 53,7?
La Repubblica Centraficana e gli altri Paesi con GHI più alti presentano problemi di precarietà politica interna o guerra civile, che hanno compromesso lo sviluppo. Ce ne sono alcuni, però, che usciti dalla guerra, sono riusciti a migliorare la loro situazione. Il Rwanda, resta allarmante, ma sta cercando di ricostruirsi.
In miglioramento anche l’Etiopia, nonostante un GHI ‘grave’. Quali interventi si devono attuare nella lotta alla fame e alla malnutrizione?
I governi locali, magari con l’aiuto di organizzazioni non governative, devono favorire la crescita economica. Al tempo stesso, è fondamentale istruire i genitori sulla qualità del cibo e su una corretta alimentazione per migliorare la salute di tutti, adulti e bambini.
In altri Stati, lontani, assenti, insicuri per la popolazione, come la Somalia che ha il tasso di mortalità infantile più grave del 13,3%, non è stato possibile calcolare il GHI.
Questi Stati non offrono i dati utili e non controllano le condizioni dei loro abitanti. E, poi, ci sono Paesi in guerra come lo Yemen, in cui è difficile entrare e riproporre al momento delle politiche agricole. In tutti i Paesi in conflitto ci sono stati danni alle produzioni agricole. Qui la cooperazione deve rafforzare le competenze locali con opere agricole di resilienza che trattengano ciò che di valido il terreno produce.
La definizione umanitaria di ‘resilienza’?
E’ la capacità della popolazione locale di resistere a situazioni avverse in modo da non lasciare i luoghi d’origine.
Il Cesvi, in questo rapporto, promuove l’approccio umanitario di lungo periodo. Ce lo spiega nel dettaglio?
Si tratta di un approccio integrato che parte dallo sviluppo agricolo. Il primo passo, come ad Haiti dopo l’uragano, può essere emergenziale e di resilienza con terrazzamenti che bloccano le frane e un obiettivo estrattivo delle risorse. Nel frattempo, si favoriscono le competenze della comunità attraverso dei training che rendano autonoma la popolazione in una fase successiva. Mi riferisco al ‘cash for work’, all’aiuto a start up locali, a dei volani dell’autonomia appunto.
Le conseguenze di una carestia, di un conflitto o di un disastro ambientale durano nel tempo. Per questo, nella presentazione dell’Indice, dite che fame e sfollamento vanno affrontati come problemi politici?
Anche politici. Terremoti e uragani non sono cause politiche della fame, ma i governi devono essere ben attrezzati per gestire il post-disastro. Con volontà e capacità tecnica si riesce a farvi fronte. Diversamente, gli sfollamenti dovuti a catastrofi umanitarie, non ambientali, hanno una grandissima componente politica. Ne è un esempio la Libia.
Nel 2010 Cesvi è stata la prima ong a entrare in Libia con un carico di aiuti umanitari. Come procede il vostro intervento?
Lavoriamo intorno a Tripoli sia con la comunità libica che con gli sfollati, soprattutto le donne, per aiutarli ad acquisire un’autonomia lavorativa.
Quanto sono importanti le donne per combattere la fame?
Sono molto affidabili nella gestione delle finanze e molto consapevoli del fatto che se loro diventano autonome, migliora la vita dei figli. I bambini possono andare a scuola, invece di restare nei campi. Nel sud dello Zimbabwe (che ha uno dei tassi più elevati di denutrizione, 46,6%) le donne si sono occupate di coltivazione, raccolta e commercio di arance. Il loro ruolo è stato decisivo per impedire ai loro compagni di emigrare in Sudafrica, lasciandole sole con i bambini.
Un rapporto Onu di settembre dice che la fame è in aumento e che negli ultimi tre anni si è tornati ai livelli di dieci anni fa. Vi risulta?
Noi usiamo indicatori diversi. Vediamo che dal 2000 la fame è diminuita, ma anche che negli ultimi tre anni conflitti e catastrofi ambientali, dovute ai cambiamenti climatici, hanno peggiorato la situazione. Solo nel 2017 in Somalia abbiamo dovuto decuplicare il nostro intervento per far fronte alla siccità che ha flagellato tutto il Corno d’Africa. Si è destabilizzato tutto il Medio Oriente, dalla Siria al confinante Libano, il quale per l’arrivo dei profughi ha raddoppiato la sua popolazione in soli cinque anni. L’anno scorso l’esodo di 700mila rohingya dal Myanmar al Bangladesh ha generato in tempi strettissimi un enorme campo di accoglienza. Il suddetto conflitto libico, cominciato nel 2011, è lontano dall’essere sanato. Il Mali è instabile e l’Eritrea appare come uno dei maggiori produttori di rifugiati al mondo, con un tasso di arresto della crescita infantile al 52,8% e quello di deperimento del 14,5%. In ognuna di queste situazioni, la fame è comparsa anche come conseguenza delle migrazioni forzate, proprio all’interno dei campi e delle zone di ‘riparo’.
Chi ha fame arriva anche in Italia e, spesso, è un minore. Che cosa state facendo in Italia per i Minori stranieri non accompagnati che approdano sulle nostre coste o arrivano via terra?
Ci occupiamo di ragazzi fra i 15 e i 18/19 anni con percorsi di inclusione sociale e integrazione lavorativa da Bergamo a Catania, da Bologna a Livorno. Essi comprendono bilanciamento delle competenze, corsi di italiano, assesment, formazione, tirocini e accompagnamento al lavoro. Varie associazioni, imprese e cittadini ci sostengono per trovare un impiego a questi giovani che sono già sul territorio italiano, posseggono permessi di seconda accoglienza, ma rischiano di essere rimandati indietro qualora al raggiungimento della maggiore età non abbiamo un lavoro o non abbiano intrapreso un percorso di studio. L’altro rischio è che finiscano in percorsi criminali, vittime di tratta o sfruttamento. I nostri ragazzi svolgono diverse professioni: parrucchieri, meccanici, operatori turistici. Noi li guidiamo a scegliere ciò per cui sono portati, assecondiamo i loro desideri e le leoro competenze.
Negli anni ’80, in seguito alla carestia del Biafra nigeriano, ci furono le prime grandi campagne contro la fame nel mondo. Quarant’anni dopo, dall’Australia agli Stati Uniti di Trump, fino al nostro governo, sembra prevalere una propaganda sovranista e nazionalista di respingimento ed esclusione. Come si può tornare a un dibattito – suggerito dallo stesso Cesvi – “senza pregiudizi, basato su fatti concreti e più informato”?
Con evidenze positive. Diversi studi dimostrano che l’integrazione produce meno gettito fiscale, incrementa il PIL e garantisce migliore tenuta sociale nell’ambito della sicurezza dei cittadini. L’integrazione persegue la direzione opposta all’esclusione e si fonda su quattro assi dipendenti l’uno dall’altro: salute, accesso al lavoro, educazione e integrazione sociale, cioè anti-marginalizzazione. Le migrazioni sono fenomeni enormi che non si possono arginare con muri e filo spinato. Contemporaneamente, bisogna impegnarsi nello sviluppo delle zone di origine dei migranti.
Nel GHI 2018 si legge infine: “Non usare l’aiuto allo sviluppo come merce di scambio nei negoziati sulle politiche migratorie”. A che cosa vi riferite?
Alla preoccupazione che si dirigano dei fondi per lo sviluppo verso politiche securitarie. Se ci si concentra solamente sulla sicurezza dei confini, si toglie potenziale allo sviluppo e alla soluzione della questione migratoria all’origine. Al momento, nonostante l’annuncio del decreto sicurezza da parte del ministro degli Interni, vediamo che i fondi allo sviluppo non sono stati toccati dal ministero degli Esteri. La nostra segnalazione è stata fatta con un’ottica transnazionale, europea.
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