L’Indice globale della fame, curato da Cesvi, mostra che la lotta contro la fame è in fase di stallo e regressione. Ma possiamo ancora cambiare le cose.
Mercoledì 29 novembre a Milano Cesvi ha presentato l’edizione 2023 dell’Indice globale della fame.
I progressi nella lotta contro la fame si sono arenati a partire dal 2015.
Le regioni del mondo più critiche sono l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale.
Quest’edizione è dedicata ai giovani, perché sono loro a poter trasformare in chiave sostenibile il sistema alimentare.
I giovani. Sono soprattutto loro a pagare il prezzo di questo periodo, ribattezzato “policrisi” per l’intreccio della crisi energetica, economica, pandemica e geopolitica. Perché, per esempio, i giovani hanno più probabilità di trovarsi in condizioni di povertà estrema e insicurezza alimentare. E spesso non hanno accesso alle risorse, alla terra, alle competenze e alle opportunità che consentirebbero loro di essere protagonisti di una trasformazione del sistema alimentare. Ma è una situazione che può cambiare, deve cambiare. Anche per dare un segnale, dunque, è dedicata proprio ai giovani l’edizione 2023 dell’Indice globale della fame, curata per l’Italia dall’organizzazione umanitaria Cesvi. Un lavoro che è stato presentato mercoledì 29 novembre a Palazzo Marino, a Milano, in una conferenza stampa moderata dal direttore di LifeGate Tommaso Perrone.
L’Indice globale della fame (noto anche con la sigla GHI, dall’inglese Global hunger index) è uno dei rapporti più autorevoli sulla fame nel mondo. Un fenomeno che viene, appunto, misurato attraverso un punteggio che è il risultato di quattro indicatori. Il primo è la denutrizione, cioè la percentuale di popolazione che non assume calorie a sufficienza. Poi ci sono il deperimento infantile e l’arresto della crescita. Entrambi si riferiscono ai bambini al di sotto dei cinque anni, ma nel primo caso il peso è troppo basso in rapporto all’altezza, nel secondo invece l’altezza è insufficiente in rapporto all’età. Infine c’è il tasso di mortalità dei bambini, sempre al di sotto dei cinque anni.
Come interpretare i numeri? Ogni stato riceve una valutazione su una scala che va da 0 a 100: più alto è il punteggio, più grave è la situazione. Più nello specifico, un punteggio inferiore a 10 è rassicurante. Da 10 a 19,9 la fame è moderata, da 20 a 34,9 è grave, da 35 a 49,9 è allarmante e da 50 in su è estremamente allarmante.
A livello internazionale, sono le organizzazioni umanitarie Welthungerhilfe e Concern Wordlwide a redigere l’Indice globale della fame. Cesvi, organizzazione laica e indipendente fondata a Bergamo nel 1985, si occupa dell’edizione italiana. Per riempire le quattro caselle ed elaborare dunque il GHI, i ricercatori attingono a dati ufficiali, pubblicati per esempio dalle varie agenzie Onu e dalla Banca mondiale. Sono 136 i paesi esaminati nel 2023, ma non per tutti c’erano dati a sufficienza: per cinque di loro dunque bisogna accontentarsi di classificazioni provvisorie, per altri sei nemmeno questo è stato possibile.
La lotta contro la fame è in fase di stallo e regressione
I numeri del 2023 non sono positivi. Anzi, per riprendere le parole della presidente di Fondazione Cesvi Gloria Zavatta, “la situazione è drammatica e lo saranno anche le prospettive future”. Facendo una media tra tutti i paesi analizzati, infatti, il punteggio di GHI 2023 è pari a 18,3 ed è quindi considerato “moderato”. Di per sé è un notevole passo avanti rispetto ai 28 punti del 2000. I progressi nella lotta contro la fame, però, si sono registrati soprattutto tra il 2000, il 2008 e il 2015. Da allora, sono entrati in una fase che Valeria Emmi, networking e advocacy senior specialist di Cesvi, definisce come di “stallo e regressione”. In particolare, preoccupa la denutrizione: nel 2017 riguardava 571 milioni di persone, nel 2022 – dopo la pandemia di Covid-19 – 735 milioni.
La fame è grave o allarmante in 43 Paesi: 9 Paesi presentano livelli di fame allarmanti; in altri 34 Paesi la fame è grave. Negli ultimi anni la situazione è peggiorata e al ritmo attuale 58 Paesi non riusciranno a raggiungere un livello di fame basso entro il 2030 #GHI2023pic.twitter.com/nGCTqdrBo2
C’è una cosa che negli ultimi vent’anni non è mai cambiata: le regioni in cui i livelli di fame sono più alti sono sempre l’Africa subsahariana e l’Asia meridionale. Oggi hanno entrambe un punteggio di GHI pari a 27, cioè grave. Nell’Africa subsahariana i dati allarmanti sono quelli sulla denutrizione (21,7 per cento, rispetto al 16,8 per cento del 2010-2012) e sulla mortalità infantile (7,4 per cento). Parte della colpa è degli eventi meteo estremi, in primis le ondate di siccità. In Asia meridionale invece è altissimo il tasso di deperimento infantile: si attesta sul 14,8 per cento, più del doppio rispetto al 6 per cento dell’Africa subsahariana.
Nove i paesi in cui l’Indice globale della fame vede una situazione “allarmante”: Repubblica Centrafricana, Madagascar, Yemen, Repubblica Democratica del Congo, Lesotho, Niger, Burundi, Somalia e Sud Sudan. Dati che stridono con il secondo Obiettivo di sviluppo sostenibile, per cui la fame dovrebbe essere azzerata entro il 2030. Di questo passo, alla fine del decennio 58 paesi non saranno nemmeno riusciti a raggiungere un livello di fame basso.
Perché i giovani meritano un ruolo da protagonisti
“Un’analisi cruda della situazione, come questa, serve per pensare in prospettiva”, ha commentato Maurizio Martina, vicedirettore generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). “I sistemi agroalimentari sono complessi e vanno analizzati prendendo in considerazione le filiere lunghe. Se vogliamo produrre meglio, consumando meno risorse, non c’è altra via se non quella di investire nelle nuove generazioni. Perché è vero che le grandi imprese hanno i capitali e il know how per innovare, ma non possiamo consentire che le soluzioni restino appannaggio di pochi. Dobbiamo investire sui giovani, e sulle donne, per far sì che il cambiamento sia per tutti e per tutte”.
“I giovani non possono più essere meri spettatori. Quando sono coinvolti, i risultati sono sorprendenti”, gli ha fatto eco da Bruxelles l’europarlamentare Fabio Massimo Castaldo. Ed è stato così, alla presentazione dell’Indice globale della fame, con la partecipazione attiva e propositiva di Bianca Arrighini, Ceo di Factanza, Andrea Grieco, ambassador dello European climate pact, e Daniele Guadagnolo, co-founder e head of climate diplomacy di Change for planet.
Le raccomandazioni di Cesvi per un futuro sostenibile dei sistemi alimentari
L’Indice globale della fame non si limita a sottolineare tutto ciò che non va, ma fa un passo in più. Perché mette nero su bianco tre raccomandazioni strategiche, a loro volta articolate in una serie di punti più specifici, per garantire un futuro sostenibile ai sistemi alimentari. E, dunque, alle persone.
Porre il diritto al cibo per tutti al centro della trasformazione dei sistemi alimentari.
Investire nelle capacità dei giovani di assumere un ruolo guida nella trasformazione dei sistemi alimentari.
Investire in sistemi alimentari sostenibili, equi e resilienti per garantire che offrano ai giovani mezzi di sussistenza efficaci e attraenti.
“Noi ci auguriamo che le azioni siano urgenti e fatte oggi; anzi, siamo già in ritardo”, ribadisce a LifeGate Valeria Emmi. “Continuiamo quindi a sollecitare, portando sui tavoli decisionali la nostra esperienza sul campo e la voce delle persone più vulnerabili, per avere un risultato oggi. Non possiamo permetterci di arrivare al 2030 senza aver raggiunto, o almeno senza esserci avvicinati, ai diciassette Obiettivi di sviluppo sostenibile (Sdgs). Perché ci garantiscono il futuro di questo pianeta, un pianeta che è unico: non ne abbiamo altri”.
Verso la Cop28 di Dubai: difendere il clima è anche difendere la sicurezza alimentare
Non c’è nemmeno troppo da aspettare per avere una prima occasione concreta di cambiare le cose. La presentazione milanese dell’Indice globale della fame, infatti, precede di un giorno l’inizio della Cop28, la Conferenza sul clima di Dubai. Durante la quale, ha fatto notare l’inviato speciale per la Sicurezza alimentare del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, Stefano Gatti, è prevista l’adozione di una dichiarazione dei leader sul nesso tra i cambiamenti climatici e la sicurezza alimentare.
Anzi, i nessi, al plurale. Perché da un lato le emissioni del sistema agroalimentare sono il 31 per cento di quelle dell’economia globale nel suo insieme, e quindi, come ha sottolineato Andrea Grieco, trasformare il modo in cui si produce e si distribuisce il cibo significa anche contribuire alla neutralità climatica. Dall’altro lato, ha ricordato la presidente di Cesvi Gloria Zavatta, l’80 per cento delle persone che soffrono la fame vive in zone soggette a catastrofi naturali. La crisi climatica inoltre innesca pandemie, conflitti e sfollamenti, mettendo ulteriormente in difficoltà il sostentamento delle persone più vulnerabili.
L’auspicio di Cesvi per la prossima Conferenza delle parti sul clima è chiaro. “Chiediamo che gli stati membri assumano con chiarezza, senza sfumature, senza passi indietro, gli impegni dell’Accordo di Parigi”, conclude Valeria Emmi. “Chiediamo politiche ambiziose, azioni ambiziose e un’assunzione di responsabilità rispetto a impegni che sono stati presi”.
In caso di shock improvvisi, come la pandemia ma anche gli eventi climatici estremi, i paesi devono essere in grado di garantire cibo sufficiente, sicuro e nutriente per tutti e farlo in modo sostenibile.
Profilazione razziale, xenofobia nel dibattito politico e omofobia nel report dell’Ecri. Tra le sue richieste c’è quella di rendere indipendente l’Unar.
Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao) “Lo stato sull’insicurezza alimentare nel mondo” (State of food insecurity in the World – Sofi 2014), sul pianeta le persone che soffrono la fame sarebbero diminuite di almeno 100 milioni di unità negli ultimi dieci anni e di oltre 200 milioni dal 1990-92.