Ha 300 anni e può essere visto persino dallo spazio. È stato scoperto nel Triangolo dei Coralli grazie a una spedizione della National Geographic society.
Il Madagascar e la tutela dell’Indri indri, il lemure cantante
Dalla passione per la natura alla salvaguardia dell’Indri indri in Madagascar: ne parliamo con Clarissa Puccioni di Friend of the Earth.
- È da più di vent’anni che a Maromizaha, in Madagascar, si porta avanti il progetto di protezione dell’Indri indri, il lemure cantante.
- Grazie alle loro caratteristiche macchie sul pelo, è possibile riconoscere gli individui senza bisogno di collari.
- Oltre a essere il lemure più grande al mondo, l’Indri indri è anche uno dei più minacciati.
Nel 2004 è iniziato il primo progetto di monitoraggio a lungo termine di una popolazione di Indri indri (la più grande specie di lemuri) nella Nuova area protetta (Nap) della foresta pluviale di Maromizaha, in Madagascar. Agli inizi di gennaio, la collaborazione tra Friend of the Earth, U onlus, dipartimento di Scienze della vita e Biologia dei sistemi dell’Università di Torino e Gerp (Groupe d’etude et de recherche sur les primates) ha permesso l’avvio del Maromizaha conservation project, con importanti azioni per la salvaguardia e la protezione di questa specie. Gli obiettivi principali del progetto si basano su tre strategie: il monitoraggio della popolazione di indri, il ripristino dell’habitat e l’inclusione della comunità locale.
Il progetto di conservazione di Maromizaha
Attualmente sono sotto osservazione 14 gruppi familiari di indri. Il lavoro di monitoraggio consiste nell’osservazione quotidiana sia dei singoli individui sia degli interi gruppi familiari. L’identificazione è facilitata dalle macchie sul pelo che caratterizzano i singoli esemplari, evitando così di doverli dotare di appositi collari. Dopodiché, un’altra via della ricerca è quella acustica, posizionando specifici registratori per monitorare la presenza spaziale e le caratteristiche sonore. Infine, parte molto importante per il successo del progetto è la sensibilizzazione delle comunità locali, coinvolgendole direttamente nelle attività svolte nell’area.
L’Indri indri, il lemure cantante
Per chi non conoscesse l’Indri indri, è il più grande lemure tra le foreste del Madagascar e, quindi, al mondo. La sua principale caratteristica è il canto. Per comunicare, infatti, utilizza un canto con sequenze che possono durare fino a tre minuti. Ma cosa lo rende così particolare? Il ritmo: l’indri è l’unico lemure capace di comporre delle sequenze sonore ritmate, con duetti e cori armonizzati.
Tra i primati cantanti, soltanto alcune famiglie presentano questo tipo di segnale: i gibboni, i tarsi e i callicebi, senza dimenticare l’uomo. Questi lemuri cantanti hanno un folto manto nero con macchie bianche, che li differenziano uno con l’altro, un muso volpino e grandi occhi verdi. In tutto il Madagascar si trovano circa 5mila indri; tuttavia, la distruzione dell’habitat insieme alla caccia e ai cambiamenti climatici fanno sì che l’indri sia uno dei lemuri più minacciati al mondo.
L’intervista a Clarissa Puccioni
Per il progetto Friend of the Earth della World sustainability organization (Wso) lavora la divulgatrice scientifica italiana Clarissa Puccioni, con la quale abbiamo fatto quattro chiacchiere riguardo alla sua esperienza in Madagascar e alle caratteristiche del progetto per la protezione dell’Indri indri.
Partiamo dall’inizio: qual è la sua storia e com’è arrivata in Madagascar?
Sono sempre stata circondata dalla natura poiché vivo in campagna. Già a otto anni sapevo cosa significasse il termine “etologia” e per questo il mio desiderio era studiare il comportamento animale. Iniziai così un percorso di studi a Scienze naturali che però, per problemi personali, non riuscii a portare a termine. Nonostante ciò, ho fatto otto anni di divulgazione sui mammiferi africani, in particolare grandi felini, elefanti e rinoceronti, e assieme a diverse associazioni ho fatto conoscere la realtà del trophy e del canned hunting. Ho fatto anche diverse esperienze nel campo della conservazione di anfibi, rettili, farfalle e uno stage in Madagascar sul Maki catta [un’altra specie di lemure, ndr]. Nel 2019 ho condotto uno studio comportamentale sulla riabilitazione psico-fisica del Lemur catta, il lemure dalla coda ad anelli, nel sud-ovest dell’isola, più precisamente nel centro riabilitativo della riserva Reniala; lì è dove ho conosciuto il mio compagno malgascio Germain, zookeeper del centro e guida locale, e da quel momento ho deciso di volermi stanziare lì.
Per quale motivo si è scelto di finanziare questo progetto sugli Indri indri?
Conoscevo da tempo il Maromizaha project del dipartimento di Scienze della vita e Biologia dei sistemi dell’Università di Torino. Friend of the Earth, oltre a certificare come sostenibili prodotti da attività agricole e tessili, ha una sezione dedicata a progetti già esistenti che necessitano di fondi per le proprie attività di conservazione. Volendo aiutare un progetto sui primati, ho selezionato proprio il Maromizaha Project che non solo si occupa di ampliare la conoscenza sulla specie Indri indri per proteggerla, ma anche di inclusione della popolazione locale del villaggio Anevoka tramite sensibilizzazione, green classes, formazioni alle guide locali di Maromizaha ed aiuti socioeconomici in loco.
Quali sono le minacce principali per gli Indri indri e quali sono le più grosse difficoltà per la conservazione?
L’indri è una specie bandiera, strettamente legata al suo ecosistema, che necessita di essere protetto insieme a lei. La pratica tavy, che in malgascio significa “taglia-e-brucia”, è ancora molto usata dalla popolazione locale per estendere le proprie coltivazioni. Nonostante la specie sia protetta dai locali fady o taboo, poiché credono che sia l’impersonificazione dello spirito degli antenati, viene cacciata per la sua carne e per la pelliccia. Nel 2018 i bracconieri hanno ucciso nove indri nel comune di Lakato. Le difficoltà risiedono dunque nel cercare un punto di incontro tra l’esistenza degli indri e le esigenze socioeconomiche della comunità che, però, questo progetto è riuscito a trovare e ne sta portando avanti l’impegno.
Come funzionano le vocalizzazioni ritmate e perché lo rendono molto simile all’uomo?
A questa domanda ci ha risposto Valeria Torti, tecnico di ricerca del progetto. Il canto di indri, proprio come il canto umano, è codificabile grazie ad una serie di “regole” che sono proprie della musicalità umana, come il ritmo. Nell’uomo esiste una sorta di ritmo “universale”, ossia una struttura ritmica che si riscontra in tutta la musica del genere umano. Quello che hanno scoperto i ricercatori dell’Università di Torino è che nei canti di indri sono identificabili delle categorie ritmiche in cui l’intervallo è isocrono (1:1), ossia quando gli intervalli tra un suono e l’altro hanno esattamente la stessa durata, oppure doppio rispetto al primo (1:2), pattern tra i più diffusi nella musica umana. Inoltre, gli indri cantano con un ritardando, cioè un ritmo gradualmente più lento, che è peculiare di diverse tradizioni musicali umane. Questa scoperta è interessante perché finora si era evidenziata la presenza di ritmi universali soltanto in alcune specie di uccelli, in cui si è evidenziata però solo la presenza di ritmo isocrono (1:1) e non di altre categorie ritmiche.
Su cosa si basa l’attività di campo, in che modo gli animali vengono studiati?
Il Maromizaha project consente a studenti italiani e malgasci di svolgere attività di monitoraggio nel cuore della foresta grazie al multi purpose centre, la prima struttura in legno con posti tenda a fare da centro di ricerca italiano in Madagascar, ideato dalla prof. Cristina Giacoma e dal suo gruppo di ricerca di Torino. Gli studenti monitorano i gruppi di indri, ma anche il sifaka diadema e l’apalemure del bamboo, strettamente legati alla foresta. Ogni cinque minuti riportano i comportamenti su griglie cartacee utilizzando il metodo focal sampling e registrano le vocalizzazioni tramite registratori audiomoth (sfruttando il Pam – Monitoraggio acustico passivo) che saranno poi analizzate in laboratorio in Italia.
La bioacustica è un campo che sta prendendo sempre più piede per le nuove scoperte. Tutto ciò è dovuto allo sviluppo di nuove tecnologie e strumentazioni, oppure si sta cambiando il punto di vista? Quali possono essere gli scenari futuri?
Anche in questo caso ha parlato Valeria Torti. La bioacustica è una disciplina che, nell’ultimo decennio, ha visto un netto incremento dell’attenzione della comunità scientifica, sia per la sua versatilità di applicazione, sia per il progresso tecnologico che ha garantito l’accesso ad una strumentazione efficace con costi accessibili. Classicamente, la bioacustica è stata applicata allo studio dei segnali vocali degli animali, nell’ottica di comprendere sia come gli animali comunicano, sia per differenziare specie, individui e gruppi. Lo studio dei suoni nel mondo animale, inoltre, ha avuto un ruolo nel comprendere i meccanismi evolutivi che hanno portato alla comparsa della specie umana, indagando le similarità e le differenze riscontrabili con il linguaggio e la musica degli esseri umani. Questo approccio, ad esempio, ci consente di costruire un albero evolutivo dei tratti musicali e capire come le capacità musicali hanno avuto origine e si sono evolute negli esseri umani.
Un grande ambito di applicazione di questa disciplina è, inoltre, il monitoraggio. I segnali vocali emessi dagli animali sono un mezzo attraverso il quale i ricercatori monitorano e seguono, si pensi agli uccelli migratori o ai cetacei, gli animali nei loro ambienti naturali. Nell’ultimo decennio, grazie allo sviluppo e alla commercializzazione di dispositivi economici e tecnologicamente avanzati (per esempio gestibili da remoto), il ruolo della bioacustica nel monitoraggio ambientale ha preso piede e si parla sempre più di monitoraggi acustici passivi. Attraverso l’uso di registratori acustici passivi, che si controllano da remoto e/o si installano in campo per molti mesi, è possibile monitorare popolazioni animali su un’ampia scala geografica, riducendo sia l’attività umana di disturbo sulle popolazioni che i costi dei monitoraggi. Lo scenario attuale vede una intensificazione di questa pratica di monitoraggio, applicata a moltissime specie negli ambienti più disparati. In futuro il monitoraggio sarà integrato, open source, e si renderanno disponibili grandi quantità di dati per la ricerca e la conservazione delle specie.
A che punto siamo con gli obiettivi del progetto?
Il progetto è nato nel 2004 e la nuova area protetta di Maromizaha è divenuta tale dal 2015; finora quindi sono stati portati al successo diversi obiettivi, tra i quali la suddivisione del territorio al margine della foresta primaria vergine di Maromizaha in parcelle agricole numerate: ad ogni famiglia del villaggio di Anevoka, alle pendici dell’area, è stata infatti assegnata una parcella affinché possano sostentarsi con la risicultura ed evitare così ulteriore deforestazione. Sono stati creati anche dei bacini per la pescicoltura, una mieleria, dei frutteti e una scuola primaria. Quest’anno Friend of the Earth ha permesso di portare avanti l’attività di riforestazione, precedentemente finanziata da Uiza e alcuni zoo in Italia. Sono state piantate in una zona degradata una trentina di plantule di bambù endemico della specie volohasy, in lingua locale. Grazie al nostro aiuto sono stati acquistati anche due piccoli registratori Sm4 per continuare il monitoraggio acustico passivo.
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