L’influenza aviaria è un virus che generalmente colpisce i volatili. Si sta però diffondendo anche tra altre specie, colpendo ad esempio quelle marine della Patagonia.
Con i suoi 4.000 chilometri quadrati di superficie terrestre e più di 3.500 di estensione marina, la penisola di Valdés è uno dei luoghi più ricchi di biodiversità dell’intera Patagonia argentina. Dal 1999 è Patrimonio dell’umanità dell’Unesco. Percorrendo la lunga strada sterrata che dalla monotona ruta nacional, la strada nazionale numero 3, conduce all’oceano, si ha l’impressione di entrare lentamente in una dimensione alternativa, diversa da quella in cui i rumorosi camion diretti in Brasile sfrecciano a tutta velocità cercando di evitare i guanaco che tentano di addentrarsi nella pampa.
L’aria si fa via via più umida, a causa della progressiva vicinanza con l’oceano Atlantico. Camper carichi di famiglie felici per i numerosi avvistamenti, si fermano per fotografare l’ennesimo nandù, uccello inabile al volo, che fa parte della stessa famiglia di struzzi ed emù, endemico del Sudamerica. E qualche temerario esemplare di volpe grigia. Tra qualche ora, quando il sole si appresterà a tramontare, su questa stessa strada si potrà avvistare anche la moffetta delle Ande, pronta a sfidare impavida chiunque le si avvicini, compreso un grosso e rumoroso van.
Il pericolo dell’influenza aviaria
Ma a rendere famosa quest’area protetta, di cui il 98 per cento è di proprietà privata ma a gestione pubblica, è la fauna marina: tra giugno e dicembre, la balena franca australe si avvicina con i piccoli alla costa, mentre tra febbraio ed aprile e tra settembre e novembre, le orche danno vita ad uno spettacolo cruento ma vitale, cacciando i piccoli di leone marino sud americano ed elefante marino con una tecnica unica al mondo che le porta quasi a spiaggiarsi.
E poi pinguini di Magellano, cormorani dal collo nero, fenicotteri australi. Questi ultimi, anche se fino a qualche tempo fa si credevano al sicuro, ora sono minacciati da un killer silenzioso e potente: l’influenza aviaria che, nell’ultimo anno, sta registrano numeri da record per l’elevato tasso di mortalità che ha colpito le specie più svariate.
“Nella penisola di Valdés”, spiega Sabrina Harris, ricercatrice del National scientific and technical research Council (Conicet) e associata all’organizzazione di conservazioneWildlife Conservation Society (Wcs) Argentina che dal 1895 lavora a livello globale per la conservazione delle specie selvatiche e degli ecosistemi, “gli elefanti marini sono stati colpiti in modo molto grave, tanto che nel novembre del 2023 il tasso di mortalità dei cuccioli di elefante marino ha raggiunto il 96 per cento, mentre nel 2022 oscillava solo tra lo 0,8 e l’1,0 per cento, per un totale di 17.400 cuccioli morti su un totale di 18mila nuovi nati”.
Cifre che fanno temere che il ceppo H5N1 sia ora in grado di effettuare il salto di specie tra mammiferi e i cui effetti sulla popolazione di elefante marino nella regione patagonica argentina verranno alla luce solo nel 2027, quando la generazione cancellata dal virus dell’aviaria lungo la costa avrebbe raggiunto la maturità sessuale.
“Ma non sono stati risparmiati nemmeno gli esemplari adulti, anche se in misura minore, continua Harris, con 36 femmine e dieci maschi adulti morti nell’ultima stagione, mentre nelle precedenti il decesso di anche solo un individuo era da considerarsi un evento raro”.
#ElefantesMarinos | "Se trata del primer registro de mortalidad masiva para esta agrupación, la única continental de la especie, y representa el primer registro mundial de mortalidad masiva de elefantes marinos por influenza aviar". +en @infobae ⬇️ https://t.co/gl3Ns2iD9s
A causare l’attuale epidemia è il virus H5N1 identificato per la prima volta nel 1996 in un’oca a Guangdong, in Cina. Da allora diversi ceppi hanno causato epidemie che hanno colpito prima gli uccelli per poi effettuare il salto di specie nei mammiferi, tra cui alcuni casi registrati anche nell’essere umano. In particolare, dal 2020, una variante di questo virus ha provocato una moria senza precedenti tra gli uccelli selvatici e il pollame domestico, in particolare all’interno degli allevamenti intensivi, in molti paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’Europa. Poi, nel 2021, il virus si è diffuso in Nordamerica e nel 2022 è arrivato in America centrale e meridionale.
Nel 2022, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), 67 paesi in 5 continenti hanno segnalato focolai di influenza aviaria ad alta patogenicità H5N1 nel pollame e nei volatili selvatici, con oltre 131 milioni di capi da allevamento morti in seguito all’infezione o abbattuti per prevenirne la diffusione. Nel 2023, altri 14 Paesi hanno segnalato focolai, soprattutto nelle Americhe, mentre la malattia continua tuttora a diffondersi e a febbraio 2024 ha purtroppo raggiunto anche il continente antartico.
La natura continua a dirci che è tutto interconnesso, ma noi non ascoltiamo
I virus dell’influenza aviaria si diffondono normalmente tra gli uccelli, ma il numero crescente di rilevamenti dell’influenza aviaria H5N1 tra mammiferi, tra cui delfini, foche del Caspio, orsi grizzly, lontre, visoni, volpi e, di recente, persino un orso polare, per un totale di 345 specie di uccelli e mammiferi, solleva la preoccupazione che possa adattarsi per infettare più facilmente gli esseri umani. Inoltre, alcuni mammiferi potrebbero fungere da serbatoi, portando alla comparsa di nuove varianti che potrebbero essere più dannose sia per gli animali che per l’uomo.
Sulla futura evoluzione della pandemia, infatti, Harris spiega che “è probabile che l’influenza aviaria sia destinata a perdurare, e che emergano nuove varianti che possono avere un impatto maggiore o minore sulle popolazioni animali. Non abbiamo certezze. L’unica speranza è che, dopo essere stati esposti al virus, gli individui possano sviluppare una certa immunità per proteggersi da una nuova infezione”. Ecco perché, non esistendo al momento vaccini o farmaci, “è importante limitare l’esposizione a fattori di stress, come può essere la presenza umana nelle colonie e nei luoghi in cui avviene la muta, come la penisola di Valdés nel caso di leoni marini ed elefanti marini, e proseguire con una intensa e continua attività di monitoraggio demografico”.
Tra i fattori che possono favorire la diffusione del virus non sono da sottovalutare i cambiamenti climatici. Harris, infatti, sottolinea come “la riduzione dei siti di “stop over”, cioè i luoghi in cui le specie migratorie si riposano prima di raggiungere la loro destinazione e che sono costituite, per lo più, da specchi d’acqua sempre più rari e ridotti in dimensione a causa dell’aumento delle temperature, possa aumentare l’interazione tra diverse specie di uccelli selvatici e tra queste e il pollame domestico”.
A dimostrazione, ancora una volta, come tutto sia estremamente connesso e come la salute del Pianeta influenzi quella di tutte le specie che lo abitano, inclusa la nostra.
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