Il rapporto Ecosistema urbano 2024 mostra alcuni progressi nelle città italiane, ma troppo lenti. E c’è troppo divario tra nord e sud.
Come rendere sostenibile la depurazione dei reflui industriali
Il brevetto dell’azienda parmense ha raccolto 700mila euro di investimenti in equity crowdfunding, doppiando l’obiettivo in soli dieci giorni.
Il trattamento delle acque reflue industriali è una questione più che spinosa. Già nel 2019, un rapporto di Legambiente ha documentato che nel 2016, solo nel nostro paese, sono state sversate direttamente nei bacini idrici oltre 280 tonnellate di metalli pesanti. A questi si aggiunge l’enorme quantità di sostanze inorganiche – come cloruri, azoto e fosforo – per un totale di 2,4 milioni di tonnellate e di sostanze organiche – come antracene, benzene e idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) – per un totale di 27.944 tonnellate.
In particolare, la gestione dei rifiuti e il trattamento delle acque reflue sono responsabili dell’86 per cento del fosforo totale sversato (2.658 tonnellate), e dell’85 per cento dell’azoto (20.830 tonnellate). L’inquinamento che deriva dai processi di depurazione di acque particolarmente difficili da trattare, si porta necessariamente dietro un effetto secondario. Da un lato quindi anche gli impianti di depurazione hanno un impatto sull’ambiente e dall’altro hanno un limite di azione: pensare di azzerare il carico degli inquinanti è ancora un miraggio; l’unica possibilità è agire per il male minore.
Notizie confortanti stanno arrivando però dal fronte dell’innovazione e della ricerca, anche a firma italiana, grazie ad aziende e start up che hanno messo sul mercato sistemi capaci di invertire la rotta e aprire nuove prospettive.
Una nuova tecnologia per estrarre sostanze “pregiate” dai fanghi da depurazione
Proprio la valorizzazione dei fanghi, cioè dei residui dei processi di depurazione delle acque di scarico, è stato l’obiettivo dei cinque anni di ricerca dell’azienda trevigiana Hbi (Human bio innovation).
Il risultato è un impianto, con tre brevetti registrati, capace di ridurre del 90 per cento gli scarti della depurazione e anche di estrarre sostanze come l’ammoniaca, il fosforo e altri nutrienti da riutilizzare, una volta raffinati, in altri ambiti, come ad esempio quello agricolo.
Il primo impianto è stato inaugurato a giugno nel depuratore di Bolzano e, in questa fase, si sta lavorando all’ ottimizzazione del suo funzionamento, con una costante raccolta dei dati.
Recuperare la cellulosa dagli scarichi fognari, da riutilizzare nell’edilizia
Il Gruppo CAP, gestore del servizio idrico integrato della Città metropolitana di Milano, ha importato una tecnologia olandese che prevede un complesso sistema di filtraggio per estrarre la cellulosa, derivante principalmente dalla carta igienica, dagli scarichi fognari, per riutilizzarla come materiale di costruzione, prima di tutto nell’asfalto stradale.
L’ impianto pilota è stato realizzato a Trucazzano, a nord est di Milano; in questa prima fase, ogni giorno, vengono prodotti 150 chilogrammi di cellulosa, a regime però la stima è di mille tonnellate in un anno.
Un sistema di depurazione ecosostenibile e basato sull’economia circolare
Per il trattamento dei reflui industriali “in situ”, è arrivato sul mercato il brevetto di Iride Acque, che si basa su un processo ossidativo che avviene all’interno di un catalizzatore realizzato con pile esauste.
Questa tecnologia relativamente semplice, ecosostenibile e altamente performante, ha convinto con rapidità gli investitori, raccogliendo nella campagna promossa dalla società CrowdFundMe, quotata a Piazza Affari, 700mila euro nel tempo record di dieci giorni, raddoppiando l’obiettivo iniziale di 350mila euro. “Dal 2015 ad oggi, abbiamo lavorato per dare una soluzione concreta e innovativa alle industrie, spesso obbligate per legge a depurare le proprie acque, senza però avere a disposizione una tecnologia adeguata – spiega Monica Casadei, amministratore delegato di Iride Acque –. La risposta degli investitori ha superato nettamente le aspettative; questo conferma che il valore del prodotto è stato chiaramente riconosciuto”.
Acqua ossigenata e pile esauste
La tecnologia dell’azienda parmense è in grado di ottenere contemporaneamente la depurazione e la disinfezione dei reflui. “L’acqua ossigenata, che viene utilizzata come reagente, è uno degli ossidanti più efficaci per abbattere le cariche virali, secondo solo all’ozono, precisa Casadei. “Il catalizzatore, che è sostanzialmente il materiale che esalta le proprietà del reagente ossidante, è realizzato prevalentemente con le pile esauste, quindi con materiale di scarto. Questo ci ha permesso di abbattere i costi, di garantire un prezzo accessibile e diventare un esempio di economia circolare”.
O, meglio, di doppia economia circolare, perché oltre all’uso del materiale di scarto, l’obiettivo dell’azienda è fare in modo che l’acqua depurata venga riutilizzata nei processi produttivi delle stesse industrie.
Un trattamento delle acque eco friendly adatto a qualsiasi tipo di refluo
Il sistema brevettato può essere anche definito eco friendly, sia per il reagente utilizzato, che è l’acqua ossigenata, sia perché Iride Acque ha investito molte risorse anche sul controllo della qualità del refluo in uscita e può garantire che non contiene alcun rilascio del catalizzatore.
In altre parole, il catalizzatore depura senza inquinare e la sua durata è di circa 5.000 ore di trattamento. “Ovviamente questo dato può variare a seconda del tipo di refluo e della quantità di metri cubi da depurare, dopo di che, non viene buttato, ma pulito e rigenerato“. Prosegue Casadei. “Parlando dell’aspetto economico, in sintesi, abbiamo stimato un risparmio dal 45 al 65 per cento sull’ investimento per l’acquisto dell’impianto rispetto alle alternative presenti sul mercato, mentre per la gestione abbiamo calcolato una percentuale di risparmio di energia elettrica che va dal 50 al 60 per cento, e dal 45 al 55 per cento per lo smaltimento dei fanghi”.
La depurazione arriva anche a domicilio con impianto montato su un furgoncino
Iride Acque ha in cantiere un altro servizio, dal forte carattere innovativo, che è la depurazione delle acqua reflue a domicilio, grazie all’installazione di un impianto completo su un furgoncino; l’obiettivo è raggiungere realtà produttive anche in centro città, depurare e rimettere in circolo le acque nel giro di due ore, o anche meno.
Per questo progetto è stata utilizzata una parte dei fondi raccolti nella stessa campagna di equity crowdfunding e la fase di avvio del servizio è prevista tra settembre e dicembre 2021.
“L’idea nasce per dare l’opportunità anche alle realtà più piccole di sfruttare il nostro sistema, penso ad esempio ad attività come i birrifici che non hanno la possibilità di mettere a bilancio l’acquisto di un impianto”, spiega ancora Casadei. “Attualmente in Italia la depurazione a domicilio è un servizio limitato alle industrie di grandi dimensioni e prevede l’utilizzo di tir per i trasporti. Rendere più semplice, rapido e accessibile la depurazione dei reflui significa per noi offrire, ancora una volta, un nuovo modello di trattamento delle acque”.
La sfida è riutilizzare l’acqua depurata nei cicli industriali
“Crediamo molto nel riutilizzo dell’acqua depurata come buona pratica, anzi come una vera e propria inversione di tendenza che consentirà di smettere di maltrattare la risorsa idrica.” Aggiunge Casadei. “Il panorama normativo italiano però non è chiarissimo e se dovessimo interpretarlo alla lettera l’acqua depurata e disinfettata non potrebbe nemmeno essere usata per lavare il pavimento. In alcuni paesi d’Europa la realtà è molto diversa, in Danimarca ad esempio esistono birrifici artigianali che utilizzato i reflui depurati proprio per la produzione della birra.
Da noi è impensabile, anche solo per un fattore di tipo culturale, ma da un punto di vista organolettico molto spesso l’acqua depurata ha caratteristiche superiori rispetto a quella che arriva in molte case. Inoltre il costo ancora molto basso della risorsa idrica non aiuta a limitare gli sprechi. In Germania il prezzo dell’acqua è di sei, sette volte superiore rispetto all’Italia. È abbastanza facile pensare che le industrie non siano motivate a riutilizzare l’acqua depurata dal momento che per loro costa meno aprire il rubinetto”.
Mettere l’acqua al centro
“Si parla molto e giustamente di aria, ma ancora troppo poco di acqua – aggiunge Casadei -. Il problema è che i danni causati alle risorse idriche vengono alla luce a distanza di tempo e una volta avvenuti, risanarli è un processo estremamente difficile. Se pensiamo all’uso degli antibiotici, negli ultimi cinquant’anni è aumentato in misura esponenziale, questo dato però viene monitorato nei rilievi solo da pochissimo tempo e le stime più ottimistiche ci dicono che l’acqua, per auto-depurarsi da questo tipo di inquinanti, ha bisogno di duecento anni”.
Da Treviso, una nuova tecnologia per estrarre sostanze “pregiate” dai fanghi da depurazione
Proprio la valorizzazione dei fanghi, cioè dei residui dei processi di depurazione delle acque, è stato l’obiettivo dei cinque anni di ricerca dell’azienda trevigiana HBI (human bio innovation).
Il risultato è un impianto, con tre brevetti registrati, capace di ridurre del 90 per cento gli scarti della depurazione e anche di estrarre sostanze come l’ammoniaca, il fosforo e altri nutrienti da riutilizzare, una volta raffinati, in altri ambiti, come ad esempio quello agricolo.
Il primo impianto è stato inaugurato a giugno nel depuratore di Bolzano.
Il Decreto ministeriale sul cromo esavalente, prorogato dal 2016, alla fine è stato abrogato
Il decreto ministeriale del 14 novembre 2016 sul cromo esavalente, metallo identificato dall’Agenzia internazionale ricerca sul cancro (Iarc) come cancerogeno accertato per l’uomo, dopo continue proroghe è stato definitivamente abrogato.
Tale decreto, che sarebbe dovuto entrare in vigore 30 giugno 2021, prevedeva l’obbligo di ricerca del parametro del cromo esavalente, nelle acque destinate al consumo umano, al superamento della soglia di 10 microgrammi per litro di cromo totale, cioè di cromo bivalente, trivalente ed esavalente.
L’obiettivo era proprio introdurre un nuovo parametro per tracciare, con maggiore precisione, quanto cromo esavalente fosse presente nel cromo complessivo rilevato.
Ora, infatti, a venire indicato è solo il valore del cromo nelle sue diverse forme ioniche, anche quelle non riconosciute come dannose, ovvero il cromo bivalente e trivalente, ignorando però la quantità di cromo esavalente. Il limite di riferimento attuale di cromo totale è di 50 microgrammi per litro.
La soglia di attenzione per il cloro esavalente sarà abbassata, ma nel 2026
Il nuovo decreto, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale proprio il 30 giugno scorso, stabilisce che la soglia del cromo totale dovrà essere abbassata da 50 a 25 microgrammi per litro – e non più a 10 microgrammi- ma entro il 12 gennaio 2026.
Dal decreto emerge però una contraddizione non da poco.
Viene mantenuto il valore di 50 microgrammi per litro di cromo totale perché considerato un livello “adeguatamente protettivo per la salute”. Contestualmente, se ne stabilisce l’abbassamento a 25 microgrammi per litro, “a titolo precauzionale”, entro il 2026 e non il 2036, come invece indicato dalla direttiva europea 2020/2185 del Parlamento europeo e del consiglio del 26 dicembre 2020.
Cioè, a farla semplice, la soglia va bene, non ci sono rischi per la salute, ma dovrà essere dimezzata, precauzionalmente, entro 15 anni e non 25.
Nel frattempo, si legge nella nota 12, “Le regioni, le aziende sanitarie locali e i gestori d’acquedotto, ciascuno per quanto di competenza, devono provvedere affinché venga ridotta al massimo la concentrazione di cromo nelle acque destinate al consumo umano” durante il periodo di transizione.
Cosa si intenda per “ridurre al massimo” non è meglio precisato.
Spesso si inizia a cercare quando il danno è fatto, il caso dei Pfas
Se la mappatura, il numero e la frequenza dei monitoraggi, gli elementi da rilevare e la definizione dei parametri sono temi fondamentali in continuo aggiornamento, è purtroppo un dato di fatto che l’attenzione su una determinata sostanza avvenga solo dopo che i danni si sono palesati in tutta la loro gravità, e indietro non si torna.
Pensiamo ai solventi clorurati, i Pfas, la famiglia di 5mila composti chimici che in Italia rappresenta una delle contaminazioni più vaste d’Europa e i cui parametri ancora aspettano di essere definiti su scala nazionale e non più solo regionale, dopo il disastro avvenuto in Veneto con l’azienda Miteni che ha inquinato un’area di 75 chilometri quadrati. E la fortissima preoccupazione in Piemonte per i cicli produttivi dell’azienda chimica Solvay e nel polo chimico Spinetta Marengo.
Uno studio di Carlo Foresta, professore ordinario di Endocrinologia dell’università di Padova, presentato alla Commissione bicamerale Ecomafie, ha evidenziato che in Veneto, nelle zone più inquinate da Pfas, la Covid-19 ha registrato una mortalità del 60 per cento superiore alla media. Allo stesso modo, anche i casi con sintomi gravi sono risultati più alti.
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