Dal mischiglio della Basilicata alla zucca malon del Friuli al cappero di Selargius, in Sardegna: i presìdi Slow Food che valorizzano prodotti dimenticati, ma di fondamentale valore per la biodiversità, il territorio e le comunità.
“La natura è la mia dispensa naturale”. Intervista allo chef Norbert Niederkofler
Materie prime di stagione, tutela del territorio e rispetto della biodiversità: la cucina dello chef tristellato Norbert Niederkofler sposa etica e sostenibilità.
“La natura è la mia dispensa naturale, la migliore che potessi avere”. È questo il mantra dello chef pluristellato Norbert Niederkofler: tutela del territorio, rispetto della biodiversità, impiego di prodotti biologici e a chilometro zero, e una mentalità che promuove un vivere lento seguendo la stagionalità. Lo chef del ristorante tre stelle Michelin e stella verde St. Hubertus all’hotel Rosa Alpina di San Cassiano in Badia e proprietario, insieme a Paolo Ferretti, di Alpinn food space & restaurant del Plan de Corones, sia in cucina che nella vita, mette al centro etica e sostenibilità. Non a caso, sua è la filosofia “Cook the mountain”, che Niederkofler ha deciso di raccontare in un libro: interamente realizzato in carta mela, ha come obiettivo quello di ripensare lo sviluppo economico-sociale a partire dall’indagine dei rapporti tra produzione, prodotto, territorio e consumo.
L’intervista a Norbert Niederkofler
Prima di arrivare a sposare in toto una cucina orientata all’etica e alla sostenibilità, Niederkofler ha affrontato un percorso fatto di viaggi e sperimentazione che l’ha portato prima nella città di Londra, poi a Zurigo, Milano e Monaco, fino a New York. Ma è con il ritorno nella sua terra – le Dolomiti, l’Alto Adige – che lo chef ha riscoperto le proprie radici e ha cominciato a interrogarsi su come dar valore alle materie prime. Da qui, e dalla nascita del suo primo figlio Thomas, è derivata la svolta nel suo modo di cucinare, che si è riflessa prima nei piatti del St. Hubertus, di cui è diventato executive chef oltre vent’anni fa, e poi nella decisione di aprire con Mo-Food – la società di consulenza a 360 gradi sul mondo del food fondata insieme al socio Paolo Ferretti – un nuovo ristorante, Alpinn, che si trova a 2.275 metri di altitudine ed è “la casa della sua filosofia”. Ci siamo fatti raccontare tutto dallo chef in persona.
Come si è avvicinato a una filosofia che abbraccia la stagionalità delle materie prime, l’economia circolare e la tracciabilità di una filiera rigorosamente locale?
Mi sono avvicinato a questa filosofia viaggiando per il mondo. Incontrare la stessa cucina a New York, Tokyo e in altre grandi città ha suscitato in me un senso di forte insoddisfazione. Si trattava di una cucina “omologata” in cui non vi era rispetto per la natura e la cultura del luogo né attenzione per un futuro sostenibile. Con la nascita del mio primo figlio Thomas è arrivata la svolta vera e propria: ho sentito la necessità di fare qualcosa di concreto per lasciare alle nuove generazioni un mondo migliore. Nel 2008 ho dato quindi vita a “Cook the mountain”, la mia filosofia sostenibile, raccontata nel libro che ho pubblicato a ottobre 2020. Due volumi che illustrano il mio approccio etico-sostenibile in cucina e nella vita e che raccolgono le mie ricette suddivise per stagione.
Lavorare in stretto rapporto con il territorio è sempre stimolante o può diventare un limite?
I limiti si trovano solamente nella nostra testa e nelle nostre abitudini. Lavorare con prodotti di stagione e in rapporto diretto con i contadini comprende sicuramente delle problematiche che, tuttavia, attraverso il dialogo e il confronto diventano risolvibili. Alla base però deve sempre esserci un pensiero comune: il rispetto per la natura e tutto quello che ci offre.
Quali sono i vantaggi di una filiera corta e del contatto diretto con i propri fornitori?
Ogni materia prima, ogni prodotto, ha dietro di sé una persona che crede in quello che fa. Tenere sempre a mente questo aspetto è fondamentale. Dopo la decisione di non affidarci ad intermediari, i passi più grandi sono stati fatti sedendoci attorno ad un tavolo insieme ai produttori e comprendendo le necessità reciproche. Il dialogo, come sempre, ti insegna molte cose. Prima fra tutte a rimanere umile.
Qual è il concetto che sta alle spalle di Cook the mountain?
La base della filosofia “Cook the mountain” è la cucina di montagna. Il rispetto della natura, le sue regole, il suo ritmo. Sicuramente è difficile da gestire: in montagna nei quattro/cinque mesi invernali non si trova nulla. Questo periodo è diventato, quindi, quello della “programmazione”, durante il quale effettuiamo gli ordini per tutto l’anno, cerchiamo nuovi contatti, nuove idee. Grazie a metodi di conservazione naturale, riusciamo a coprire anche questo momento dell’anno sempre rispettando la filosofia.
Lei è uno chef anomalo: non si limita a stare in cucina, ma organizza eventi, discute di etica, ha anche fondato una società di consulenza. Ci sta dicendo che lo chef oggi assume un ruolo più ampio, che va oltre il piatto?
Penso che dipenda dall’età, ma soprattutto dalla curiosità. Quando si è giovani si hanno i propri pensieri, le proprie idee, le proprie convinzioni. Con il passare degli anni ci si rende però conto che, se si desidera portare avanti queste idee, questi pensieri e queste convinzioni e se, soprattutto, si vuole cambiare qualcosa con effetto a lungo termine, bisogna agire. Ecco perché non mi sono limitato al ruolo di cuoco in cucina.
Fortunatamente sono sempre stato molto curioso – e lo sono ancora –; il tema della sostenibilità collegato anche ad altri settori mi ha sempre affascinato. Da questo è nato “Care’s – The ethical chef days”, un evento annuale che riunisce cuochi ed esperti della ristorazione da tutto il mondo che condividono lo stesso obiettivo, già evidenziato nel nome: prendersi cura. Del territorio, dell’ambiente, dei ritmi della natura, della cultura in tutte le sue forme.
Qual è il suo impegno in un’ottica di sostenibilità in cucina?
Rispettare la biodiversità, gli animali, il lavoro dei produttori, la stagionalità delle materie prime e valorizzare il prodotto, riducendo gli sprechi al minimo.
Pensa che il coronavirus potrà cambiare l’approccio delle persone nei confronti della cucina?
Penso che ogni crisi porti un cambiamento. Il momento che stiamo attraversando ci ha catapultati in una realtà anomala, che difficilmente avremmo potuto prevedere o immaginare. Non possiamo viaggiare né mangiare al ristorante e questo fatto avrà sicuramente ripercussioni sulle scelte relative all’aspetto gestionale. Il settore della ristorazione ne ha risentito parecchio e temo che, per questa ragione, molti giovani lo abbandoneranno.
Qual è il primo ristorante in cui andrà appena riapriranno?
Ammetto di non averci ancora pensato, sulla lista ci sono sicuramente ristoranti di amici. In generale, sono tante le cose che mi mancano – dal caffè al bar la mattina, all’aperitivo con gli amici, fino alla cena nel ristorante della mia città. Non ho idea di come sarà la normalità del futuro, ma penso che abbiamo molto da recuperare.
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