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Michael Nyman. I terremoti, anche interiori, che ispirano la mia musica e i miei film
Cinque mega schermi frontali proiettano distruzione, pianti, processioni. Lui sfoglia un libro sul sisma di Città del Messico. È l’autore dell’installazione, Michael Nyman, 75 anni, uno dei più grandi compositori contemporanei e fautore del minimalismo in musica. Scorrono anche immagini de L’Aquila in rovine, di ragazzine messicane che saltano la corda come se niente fosse
Cinque mega schermi frontali proiettano distruzione, pianti, processioni. Lui sfoglia un libro sul sisma di Città del Messico. È l’autore dell’installazione, Michael Nyman, 75 anni, uno dei più grandi compositori contemporanei e fautore del minimalismo in musica. Scorrono anche immagini de L’Aquila in rovine, di ragazzine messicane che saltano la corda come se niente fosse accaduto e di leoni marini che a Kobe, in Giappone, avevano iniziato ad agitarsi in modo inusuale prima delle scosse telluriche. Una cantante di Okinawa intona No Woman No Cry di Bob Marley. https://youtu.be/e3bImkqVCPo L’opera Nyman’s Earthquakes, I terremoti di Nyman, svela il suo interesse per le emozioni scatenate da enormi traumi. E conferma la passione per il materiale d’archivio, come nel precedente War Work sulla prima guerra mondiale. Non solo compositore, ma anche regista (ha girato oltre 80 film), l’autore della colonna sonora di Lezioni di Piano non ha mai smesso di indagare l’abisso emotivo. Tuttavia, humour e self control inglese, dirà lui in questa intervista, gli permettono di mantenere uno sguardo ravvicinato senza essere travolto. È interessato al controllo delle emozioni, ma forse anche alla straordinarietà di tale reazione nelle situazioni più estreme.
I terremoti vissuti da Michael Nyman
Nyman’s Earthquakes è uno sguardo sulle tragedie umane, come la sua precedente opera War Work. I terremoti, tuttavia, sono fenomeni naturali, mentre le guerre sono causate dagli esseri umani. Chi teme di più, l’uomo o la natura?
È una domanda troppo difficile, a cui vorrei non rispondere. Ci sono certamente alcuni elementi che accomunano War Work e Nyman’s Earthquakes. Sono entrambi una sorta di documentari, personali, utilizzano archivi. Attraverso materiale preesistente creano quasi una struttura musicale che a volte dipende dalla musica o è influenzata dalla musica, o è una musicalizzazione del film. Mi sento molto fortunato a essere un regista che crea anche strutture musicali. Quando faccio un film, lavoro sempre con il punto di vista di regista e di compositore, devo far interagire suoni e immagini. Ho 75 anni e vissuto molte esperienze che mi hanno portato ad affrontare queste tragedie in un certo modo, e con il giusto distacco. Come ogni persona, i terremoti li ho vissuti prima di tutto a distanza, da giovane spettatore davanti alla tv, per esempio quello di Skopje in Macedonia del 1963. Ma i terremoti che mi hanno accompagnato finora sono numerosi, e in alcuni casi li ho vissuti quasi in prima persona.
Quali?
La prima volta che sono andato a Città del Messico è stato nel 1985 e, a due mesi dal mio ritorno a Londra, ci fu quel terribile terremoto. Il mio pensiero andò subito a tutta la gente che avevo incontrato e conosciuto lì, a quelli che avrebbero potuto essere rimasti coinvolti o uccisi. Nel 1988 mi chiesero di comporre le musiche di un documentario sul terremoto di Armenia e, come parte del processo di scrittura, mi recai sul luogo del disastro. Nel dicembre del 1994 suonai a Kobe e solo un mese più tardi ero a Londra, comodamente seduto nel mio salotto, a guardare sulla BBC le immagini del terremoto che aveva distrutto la città giapponese. Inconsciamente immaginai che tra quelle vittime ci potessero essere alcuni degli spettatori del mio concerto, una sensazione bruttissima. Quindi quest’ultimo film è personale e impersonale al tempo stesso, ma d’altronde io sono un “ragazzo” inglese con uno sguardo sia ravvicinato sia distante.
Che cosa la spinge a trattare queste tragedie?
La cosa più appassionante per me è la ricerca di vecchi materiali d’archivio, che mi dà il potere di accedere a immagini scomode e disturbanti. Le immagini d’archivio che ho usato in War Work sono scioccanti, mostrano gli effetti traumatici della guerra sugli individui, sul controllo delle loro emozioni e non sulla fine della loro vita. È una osservazione simultanea, un insieme di teoria, pratica, con accesso a cose a cui talvolta non vorrei accedere. Non posso rispondere alla tua domanda.
Ma ha risposto…
La sensazione più paurosa per me, lavorando su Nyman’s Earthquakes, è stata quella che ogni terremoto è diverso, eppure ogni terremoto è lo stesso. Tutti i terremoti producono perdita di vite, distruzione di edifici e strade, bare, dolore, ma ogni terremoto ha la propria storia politica. Quando assistetti alle immagini di Belice in Sicilia, nel 1968, mi trovavo a Roma. Ciò che mi colpì di più di quel terremoto furono le proteste della popolazione come reazione alla negligenza dello Stato.
E lei vuole accrescere la consapevolezza delle persone su tematiche sensibili, o crea per il semplice gusto di farlo?
Quel che faccio io, in pratica, è sedermi e comporre la mia musica. Ogni pezzo di musica determina alcune circostanze, ma a volte le composizioni sono una risposta al lavoro altrui, come quando scrivo una colonna sonora. Altre volte, e mi è capitato specialmente con Peter Greenaway, non sono una risposta al film ma all’idea del film. Per esempio, la musica per The Droughtsman’s Contract di Greenaway o per Lezioni di Piano di Jane Campion è risultata particolarmente adatta a quei film, pur essendo composta prima che fossero girati gli stessi. In un certo senso, quindi, i film rispondono alla mia musica più che viceversa. Nel caso di Greenaway, la mia musica seguiva la narrazione e la struttura, mentre in Lezioni di Piano si adattava alla sceneggiatura.
Che musica ha usato per Nyman’s Earthquakes?
La musica principale è quella di Out of the Ruins, che scrissi per il documentario di Agnieszka Piotrowska sulla commemorazione del terremoto in Armenia del 1988 alla BBC. Ed è l’unica composizione realizzata da me appositamente per un terremoto. Poi ho inserito quella di String Quartet N.3 e Saxophone Quartet, che pure sono figlie di Out of the Ruins, oltre a La Traversée De Paris. Puoi ascoltarle tutte separatamente e pensare che abbiano la stessa origine, ma in Nyman’s Earthquakes le metto fisicamente insieme. Che lo si possa notare o meno non importa, mischiare immagini (mie e di archivio) e suoni (miei) per creare connessioni ed emozioni è come un gioco, anche se non è affatto un gioco. Può essere complicato senza essere complesso, oppure complesso senza essere complicato.
Quanto è importante l’interazione tra musica e immagini?
È interessante, dipende dalle prospettive. Una volta ho invitato un amico, il gallerista Massimo Minini che è un grande fan della mia musica, a un concerto dove suonavo il pianoforte e proiettavo film. A fine esibizione è venuto da me arrabbiato, perché voleva ascoltare solo la mia musica senza distrazioni. Quindi sì, certo, la musica vive di vita propria, ma per quanto mi riguarda può benissimo accompagnare e valorizzare le immagini, come nelle colonne sonore dei film.
Si sente in qualche modo imprigionato nel ruolo del compositore di Lezioni di Piano?
Personalmente no, ma il mondo mi ricorderà soprattutto per quello. Come dargli torto, è una colonna sonora veramente buona. È stata il frutto di decisioni particolari, sia in termini compositivi sia culturali, che hanno avuto un grande impatto sul pubblico. E questo può essere visto come un bene o come un male. Ma io continuerò a comporre musica, a fare mostre e installazioni a prescindere dalla mia reputazione. A parte War Work che mi è stato commissionato, e Nyman’s Earthquakes che in pratica mi sono autocommissionato, ultimamente mi diverto a registrare video per strada. Se c’è un evento che mi interessa, fresco e inatteso, su cui nessun altro sta prestando attenzione, tiro fuori la mia piccola telecamera e registro.
Il cambiamento climatico potrebbe essere il soggetto di un suo prossimo lavoro?
È un argomento che ovviamente mi coinvolge molto a livello umano perché ci convivo, come ci convivono i miei figli e nipoti. Ma non lo affronterei in un film, è un tema troppo grande per me, troppo onnipresente. Solo qualche piccolo dettaglio, imprevisto o informazione imprevedibile potrebbe farmi scattare la curiosità. Un po’ come è successo per War Work, dove ho scovato quel materiale d’archivio inedito per puro caso.
Immagine di copertina: Michael Nyman a Roma nel 2011 © Getty Images
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