Il concerto milanese per Gaza, un successo di pubblico e raccolta fondi, è stata la presa di posizione più forte contro il genocidio della scena musicale italiana.
Intervista a Jonsi Birgisson
Jonsi, Come mai hai deciso di cominciare un’avventura solista? Faccio musica da una vita, e questo era un sogno che avevo nel cassetto da diverso tempo. Anche perché sono tante le canzoni che ho scritto da solo, nel mio appartamento, e poi messo da parte. Ce ne sono alcune che hanno addirittura dieci, quindici anni,
Jonsi, Come mai hai deciso di cominciare un’avventura
solista?
Faccio musica da una vita, e questo era un sogno che avevo nel
cassetto da diverso tempo. Anche perché sono tante le
canzoni che ho scritto da solo, nel mio appartamento, e poi messo
da parte.
Ce ne sono alcune che hanno addirittura dieci, quindici anni,
alcune sono più recenti ovviamente.
L’anno scorso mi è sembrato il momento giusto per
dedicarmici, anche perché con la band ci siamo presi un
momento di pausa, anche perché alcuni dei componenti della
band hanno avuto dei figli…
Hai fatto tutto da solo o ti ha aiutato
qualcuno?
Ho lavorato insieme al compositore americano Nico Muhly, mi ha
dato una mano per gli arrangiamenti e gli archi, ha anche suonato
il piano.
E’ lui il principale responsabile dell’attiudine e dei colori
che ha preso il disco
archi, arrangiamenti,
MI ha aiutato molto anche Samuli Kosminen , un batterista e
percussionista finlandese, ha portato tanta energia e ritmo. Si
tratta di due artisti unici, bravissimi in quello che fanno; questo
è il motivo per cui ho voluto lavorare con loro.
Come mai la scelta di cimentarti con
l’inglese?
Mi è sembrata una sfida interessante, avevo voglia di
imparare, di mettermi alla prova con qualcosa di nuovo, una lingua
con cui non mi sentissi perfettamente a mio agio, come invece
accade con l’islandese.
Dopo tanti anni di gestazione sei
soddisfatto?
Nonostante non sia venuto come l’avevo immaginato sono molto
contento del risultato. Inizialmente l’idea era quella di un album
acustico, minimale e molto tranquillo. Poi invece è uscito
qualcosa di completamente diverso: ricco, gioioso, colorato, sopra
le righe…
In questo senso un titolo come “Go” mi sembra
abbastanza programmatico…
Si. Di fatto nasce dai testi dell’album. E’ un disco che vive
di opposti, contraddizioni: parole come speranza, timore,
felicità e tristezza. Avrei potuto scegliere “vai”, “go”,
così come “vai all’inferno”, “go to hell”, in un certo
senso!
Che cosa hai ascoltato mentre lavoravi a
“Go”?
La musica che ascolto a casa di solito è quella di
Bille Holiday, Django Reinhardt, Nat King Cole… Il vecchi
jazz, Bing Crosby..
Per il tuoi progetto parallelo, “Riceboy Sleeps”, hai lavorato con
un computer ad energia solare quando eri nella giungla hawaiana.
Immagino dunque tu sia sensibile alle tematiche ambientali. Cosa
pensi di quanto accaduto nel Golfo del Messico?
Cio che è successo alla Deepwater Horizon è
terribile. E’ l’unica cosa che riesco a dire. La cosa più
triste è che potrebbe succedere ancora e che è colpa
dell’uomo. E ogni volta si dice che le misure di sicurezza erano
altissime e che vengono fatti controlli periodici… Io cerco di
pesare il meno possibile sul pianeta: mangio cibi crudi che non
hanno bisogno di essere processati o cucinati e non comportano il
sacrificio di nessun animale, mi vesto con indumenti di cotone
biologico. Non posso fare a meno di consumare energia,
probabilmente anzi ne consumo molta tra computer, cellulari e tutto
ciò che mi serve per fare musica. Però in Islanda
l’energia elettrica proviene già interamente da fonti
rinnovabili. E cerco sempre di fare del mio meglio, proprio come
quando alle Hawaii abbiamo vissuto presso questa comunità di
persone che consumano unicamente energia solare che arriva fino a
loro da un grande impianto. Il disco l’abbiamo mixato
così.
A proposito del nostro pianeta… Cosa pensi
dell’espressione “world music”?
La trovo abbastanza noiosa, come tutti i tentativi di definire e
descrivere la musica. Amo la musica, la considero qualcosa di
magico e intoccabile. Quindi di indefinibile. Non appena cerchi di
catturarla con delle parole – ma non fraintendermi: amo le parole –
diventa improvvisamente più reale, tangibile e… umana. E
perde parte del suo fascino.
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