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Investire per l’infanzia: tocca (anche) alle imprese tutelare i minori
In un mondo in cui la bandiera della globalizzazione positiva è stata ammainata e sostituita dalla politica dei muri, “se ci sono dei soggetti che possono sostenere una globalizzazione dei diritti umani non sono certo i governi, quanto la società civile e il mondo delle imprese”. Le parole sono quelle del professor Paolo De Stefani,
In un mondo in cui la bandiera della globalizzazione positiva è stata ammainata e sostituita dalla politica dei muri, “se ci sono dei soggetti che possono sostenere una globalizzazione dei diritti umani non sono certo i governi, quanto la società civile e il mondo delle imprese”. Le parole sono quelle del professor Paolo De Stefani, del Centro diritti umani dell’Università di Padova; il concetto è quello alla base dell’incontro sugli ‘Investitori per l’infanzia’, organizzato alla Camera dei deputati nell’ambito della Settimana dell’investimento sostenibile e responsabile: sono le stesse imprese oggi ad essere chiamate a promuovere i diritti umani (quelli dell’infanzia nello specifico, ma non solo), iniziando a considerarli non più un ostacolo ma un patrimonio verso lo stesso sviluppo aziendale. Come? Per esempio rispettando le convenzioni esistenti, e rendendosi per questo più trasparenti, pulite e dunque appetibili agli investitori.
168 milioni di bimbi lavoratori
Infatti, assicura, Cristina Daverio, research manager di VigeoEiris, “l’utilizzo di lavoro minorile nelle imprese è ormai motivo di attenzione da parte degli investitori per rischi connessi di tipo reputazionale, finanziario e legale per la crescente attenzione di governi e istituzioni”. Di conseguenza lo sfruttamento minorile ha subito un crollo di un terzo negli ultimi 15 anni, anche se i numeri restano importanti: secondo l’International labour organization, nel 2012 erano 168 milioni i bambini lavoratori, 85 milioni dei quali impegnati in lavori rischiosi. I settori di maggior impiego erano l’agricoltura, le attività estrattive, le fabbriche e i lavori domestici. Asia e Africa sub-sahariana sono ovviamente i continenti dove il fenomeno è più consistente, ma anche l’Italia non ha risolto del tutto il problema, anzi: sono 340mila bambini che lavorano in Italia e 28 mila lavorano in condizioni gravi, compresa la prostituzione. Per questo nel 2016 è stata avviata una iniziativa di engagement sul tema del lavoro minorile da una cordata di 32 investitori italiani (fondi pensione, gestori, Enti di Previdenza e fondazioni bancarie) su 43 imprese
I risultati sono stati confortanti, ma sicuramente migliorabili: tutte le imprese interpellate adottano politiche e linee guida per integrare nella propria policy i Children’s Rights dell’Unicef, il 55 per cento partecipa ad altre iniziative sul tema, in particolare il Global compact lanciato nel 2000 dalle Nazioni Unite, il 48 per cento delle aziende dispone anche di audit esternalizzati che valutano la conformità dei processi alle linee guida. Bene, ma non benissimo: il segretario generale del Forum per la Finanza sostenibile Francesco Bicciato suggerisce che in Europa per esempio Francia e Gran Bretagna dimostrano un’attenzione ancora maggiore e soprattutto, chiosa Daverio “il fatto di aver ricevuto risposte concrete non vuol dire che queste aziende siano completamente virtuose, il monitoraggio deve continuare”.
Un obiettivo del millennio
Tanto più che l’eliminazione del lavoro minorile rientra a buon diritto negli obiettivi dello sviluppo sostenibile individuati nel 2015 nella cosiddetta Agenda 2030: “Non si può non considerare questo come un punto delle strategie di sviluppo – spiega Gianni Rosas, direttore italiano dell’Organizzazione internazionale per il lavoro. L’eliminazione entro il 2030 di tutte le forme di lavoro forzato e minorile speriamo sia un benchmark per l’elaborazione di politiche per il lavoro”. Il mondo della politica promette di non abbandonare le imprese in questa battaglia: la vicepresidente del Senato Valeria Fedeli, ricordando che “oggi i cittadini sono pronti ad affrontare costi maggiori se i prodotti che acquistano sono sostenibili, in particolare la grande maggioranza dei millennials”, auspica “un approccio che assuma limiti di etica della finanzia, principi di correttezza, trasparenza e responsabilità da parte dei mondi finanziari”.
Giulia Genuardi, head of sustainability planning di Enel, tra le imprese coinvolte dall’engagement, allarga il campo: “Dobbiamo tutelare tutti nel mondo del lavoro, non solo i minori: investire sulla sicurezza per esempio, sulla genitorialità, vuol dire tutelare indirettamente anche i bambini”. Ma il cambiamento che serve è culturale, perché “le convenzioni danno i loro frutti”, spiega Rosa, ma le forme di sfruttamento mutano, si evolvono in continuano e rischiano di sfuggire alle categorizzazioni.
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