Mentre la vittoria di un presidente conservatore in Iran era prevista, la società non crede più che il proprio voto possa fare la differenza. Ne abbiamo parlato con la giornalista Cecilia Sala e alcuni studenti iraniani.
Per metà repubblica presidenziale, per metà teocrazia, la Repubblica islamica dell’Iran ha da poco incoronato il nuovo presidente: il giurista religioso Ebrahim Raisi. La vittoria di un tradizionalista non è affatto una sorpresa, lo è invece l’alto tasso di astensionismo al voto che coinvolge tanti giovani. Allo stesso tempo, emergono molte domande sulla legittimità del prossimo governo e forse, per alcuni, della stessa Repubblica islamica.
La vittoria di Raisi in Iran
“Prima ancora che il Paese entrasse in campagna elettorale, in Iran erano già nate sui social network delle campagne per il boicottaggio del voto”, spiega Alizeh (il nome è di fantasia), studentessa di belle arti, in Italia da quattro anni. “Su alcuni social è diventato virale l’hashtag “non voterò in nessun modo”. Chi si interessa di politica segue questo genere di piattaforme di scambio d’opinione, ma non è facile accedervi perché il discorso politico è molto censurato in Iran”.
“In generale ci sono sempre stati dei movimenti più duri per il boicottaggio delle elezioni – spiega la giornalista Cecilia Sala inviata in Iran durante il periodo elettorale – e alcuni vogliono la fine della Repubblica islamica e anche quest’anno sono stai presenti fuori dai seggi gridando “non votate!”. Ad ogni modo, Raisi è percepito dai più come un burocrate senza carisma, un mero esecutore degli ordini della Guida. Probabilmente, i seggi sarebbero stati un po’ più affollati se si fosse candidato un personaggio come Zarif, il ministro degli esteri del governo uscente”.
Raisi ha ottenuto ben 17,9 milioni di voti, il 62 per cento dei 28,9 milioni totali espressi. Il problema è che su una popolazione di 83 milioni di cittadini, soltanto il 48 per cento dei 59 milioni aventi diritto è andato a votare. Mentre il numero di astenuti supera quello dei votanti, la percentuale di schede nulle, quasi 4 milioni, è più alta di quella raggiunta dal secondo candidato favorito, Mohsen Rezai, che si è fermato a poco più di 3 milioni.
All’infuori dell’Iran, Raisi è conosciuto per il suo passato controverso da viceprocuratore generale. Il nuovo presidente è personalmente sotto sanzioni statunitensi e condannato da Amnesty International in quanto responsabile dell’esecuzione di migliaia di oppositori politici durante gli anni Ottanta.
As Head of the Iranian Judiciary, Ebrahim Raisi has presided over a spiralling crackdown on human rights which has seen hundreds of peaceful dissidents, human rights defenders and members of persecuted minority groups arbitrarily detained. https://t.co/Ry0F3vIkql
“In molti pensano che Raisi sia un boia – continua Alizeh – soprattutto chi è all’estero ha evitato di votare in segno di protesta proprio per il ruolo che ha avuto a capo del sistema giudiziario. Lo stesso messaggio ha riscontrato meno seguito all’interno dell’Iran, perché internet è controllato e filtrato dalle autorità. Fuori dal Paese è più semplice trovare informazioni, ma è comunque pericoloso diffonderle. Gli attivisti rischiano di essere arrestati per un post su Twitter, ci sono molti iraniani che non possono fare ritorno nel proprio paese per motivi di questo tipo”.
Raisi potrebbe comunque rivelarsi meno radicale di quello che si pensa. I religiosi tradizionalisti al potere sono dotati di un forte pragmatismo. Persino nel gennaio del 2020, quando il generale Qasem Soleimani è stato ucciso da un drone statunitense, l’Iran ha risposto in modo oculato alle provocazioni. Raisi è proprio uno di quei tradizionalisti che nel 1979 presero parte alla rivoluzione che spodestò il monarca dando vita all’ideologia e all’ordinamento della Repubblica islamica.
In questo momento a Raisi spettano compiti molto impegnativi: risollevare un’economia al collasso e promuovere una campagna vaccinale efficace. Non da meno, c’è il ripristino del famoso accordo sul nucleare con il nemico di stato, gli Stati Uniti d’America, con lo scopo principale di eliminare le sanzioni che influiscono gravemente sull’economia del Paese.
“Nel 2018, con le sanzioni economiche di Trump, ho visto il mio Paese scivolare sempre di più nella crisi economica – racconta Izad (altro nome di fantasia), studente di lingue in Italia da sette anni. “L’Iran è la quarta riserva mondiale di petrolio, ma esportare è difficile, anche i Paesi europei vengono sanzionati se commerciano con la Repubblica islamica dell’Iran. La cosa peggiore è che le sanzioni impediscono anche l’importazione di molti farmaci e macchinari medici, questo ha ovviamente peggiorate le cose durante la pandemia. Ci siamo trovati letteralmente isolati”.
L’esclusione dei candidati moderati
Da tempo, voci di corridoio parlano di Raisi come possibile successore alla attuale Guida suprema Ali Khamenei, la più alta carica a cui un giurista dell’islam sciita possa aspirare.
“La Guida suprema ha la prima e l’ultima parola su tutto – chiarisce Alizeh – paradossalmente, l’Iran ha anche dei meccanismi simili ai sistemi propriamente democratici, i cittadini votano per eleggere il presidente della Repubblica e il Parlamento. Per questo la gente ha sempre avuto la speranza di incidere sulla vita politica del Paese, ma non ha mai funzionato. Le poche occasioni che abbiamo per esprimere una preferenza sulla politica vengono comunque controllate dall’alto”.
Per queste elezioni il Consiglio dei guardiani, organo formato da vertici religiosi che approva o esclude i candidati, ha favorito un personaggio come Raisi, conservatore vicinissimo alla Guida. Mentre l’esecutivo degli ultimi otto anni, due mandati, è stato guidato da un presidente moderato, Hassan Rouhani, lo scorso 18 giugno il Consiglio dei guardiani ha escluso i candidati che avevano una reale possibilità contro il fronte conservatore, in modo da evitare qualsiasi distanza tra i due fuochi istituzionali della politica iraniana.
“La vittoria di Raisi è stata più simile a un referendum che ad un’elezione presidenziale – commenta Izad – ma anche se ci fossero stati candidati riformisti l’affluenza sarebbe stata comunque bassa, la gente non si sente rappresentata, tanto meno da chi ha promesso una società più libera per poi finire ad eseguire gli ordini del regime ed arrestare chi protesta”.
Eppure, tanti giovani avevano creduto nella politica di Rouhani. Nel 2015 erano scesi in piazza per festeggiare l’accordo di non proliferazione dell’uranio, sperando che la collaborazione con Usa portasse ad una maggiore libertà, quantomeno economica. Con otto anni di moderati al governo, invece, la moneta si è svalutata dell’ottanta per cento, le autorità non hanno saputo provvedere ai continui terremoti e alluvioni, il Paese soffre di una grave mancanza d’acqua e non è raro che a Teheran manchi l’elettricità per alcune ore al giorno. Ancora peggiore è stata la gestione della pandemia di coronavirus, con cui Rouhani ha perso definitivamente ogni credibilità.
La sfiducia dei giovani, dalle piazze ai seggi
“Se nemmeno un presidente moderato può fare la differenza cosa posso sperare io con un voto?”, commenta un giovane iraniano fuori dai seggi intervistato da Cecilia Sala durante le votazioni. In Iran l’età media non supera i trent’anni e il 25 per cento della popolazione ne ha meno di quindici. Sono giovani ben istruiti, tanti fanno l’università e, in generale, il Paese investe nell’istruzione il venti per cento della spesa pubblica. Ciononostante, il tasso di disoccupazione giovanile è fermo al 27 per cento. Per questa elezione un milione e mezzo di giovani avrebbero potuto votare per la prima volta, ma in pochi hanno deciso di farlo.
“I giovani sono sempre più distaccati dalla politica – dice Sala – ai seggi erano in pochissimi. Sicuramente Raisi non rappresenta la popolazione di Teheran, dove i giovani che votano, non votano certo conservatore. Dall’altra parte, invece, l’immensa sfiducia deriva proprio dal fallimento dei moderati di Rouhani, sia nell’economia, che nella mancata apertura delle promesse libertà sociali. La maggior parte degli elettori, primi fra tutti i giovani, si è astenuta perché delusa dall’amministrazione moderata, non vuole necessariamente un cambio di regime, ma una società più aperta”.
Prolungata negli anni, l’instabilità economica ha portato a numerose proteste contro il rincaro di beni di prima necessità. Se un tempo la popolazione si batteva per diritti e principi, in questo momento la priorità è l’economia: gli stipendi sono rimasti gli stessi mentre il prezzo del riso è quadruplicato.
“Molti giovani dicono che la loro generazione non è più come quella del 2009, quando ci furono le più grandi proteste che l’Iran mai abbia conosciuto dopo la rivoluzione – spiega Sala – in quell’occasione soprattutto il ceto medio e gli studenti scesero in piazza per contestare l’elezione del conservatore Mahmud Ahmadinejad. Quelle proteste furono represse con il sangue. Ad ogni modo, anche durante questa campagna elettorale era tangibile l’eredità delle manifestazioni degli ultimi anni. In molti chiedevano ai candidati di chiarire il reale numero di morti durante gli scontri per il rincaro della benzina nel novembre 2019. Altri hanno spinto per avere spiegazioni sull’uccisone Soleimani e sull’aereo civile abbattuto sui cieli di Teheran, tutte ferite ancora aperte per l’orgoglio nazionale”.
La volontà e lo sforzo per incidere nella sfera politica e sociale sono elementi storici di questo Paese, a prescindere dal suo orientamento, che piaccia o meno agli occidentali. La stessa rivoluzione del 1979 non sarebbe stata possibile senza il coinvolgimento per il discorso politico che tradizionalmente caratterizza il popolo dell’Iran. Gran parte dell’elettorato di oggi è invece stanco, deprivato. Tra l’incudine e il martello, un clima conservatore spinge dall’interno, mentre da lontano, una superpotenza ostile schiaccia con le sanzioni colpendo i cittadini, più che il regime. Limitato in risorse e possibilità di azione, quell’elettorato così in fermento per esprimersi contro la repressione, a volte anche a caro prezzo, oggi trova come unico strumento politico il silenzio.
Nel primo, secondo molti decisivo, dibattito in vista delle presidenziali, Kamala Harris ha convinto. Secondo la testata americana Cnn il 63 per cento degli spettatori ha preferito la candidata democratica.
In Germania, in particolare, si guarda con grande preoccupazione alle elezioni legislative in Francia. Il rischio è di far crollare l’asse Parigi-Berlino.
Era scontato, ora è anche ufficiale. La corsa alla Casa Bianca sarà un remake del 2020. Biden contro Trump è una storia che si rinnova e continua a spaccare l’elettorato, nonostante i dubbi sull’età dei leader.
I naufraghi erano bloccati sulla piattaforma tunisina per l’estrazione di gas Miskar, che ha permesso alla nave di Emergency avvicinarsi salvo poi negarle il permesso di compiere i soccorsi.
Oltre il 90 per cento dei venezuelani ha votato “sì” ad uno storico referendum per annettere il territorio dell’Esequibo, da oltre un secolo oggetto di contesa con la vicina Guyana.
Le donne dell’America Latina sono una risorsa fondamentale per lo sviluppo delle comunità indigene. Progetti come Tuq’tuquilal, in Guatemala, sono un esempio naturale di ambientalismo intersezionale.