La Cop16 sulla biodiversità si conclude con pochi passi avanti. Cosa resta, al di là della speranza?
Si è conclusa il 2 novembre la Cop16 sulla biodiversità, in Colombia. Nonostante le speranze, non arrivano grandi risultati. Ancora una volta.
La summer school nell’area marina protetta delle Egadi è un concentrato di informazioni tecniche e pratiche sulla biodiversità e sulla sua salvaguardia
È strano starsene seduti in una delle maestose sale dell’ex stabilimento Florio di Favignana, in mezzo a file di ragazze e ragazzi tra i 13 e i 18 anni. In questi 32mila metri quadrati, che per lungo tempo hanno ospitato la tonnara di Favignana, sul finire dell’Ottocento la famiglia Florio rivoluzionò per sempre l’industria del tonno introducendo la sua conservazione sott’olio e lo stoccaggio nelle latte. L’economia dell’isola per molto tempo ha ruotato intorno alla pesca e alla produzione del tonno in scatola: durante il periodo della mattanza e nei giorni subito successivi (la carne del tonno va lavorata immediatamente subito dopo la pesca) l’intera isola si riversava qui per lavorare. Uomini e donne – con tanto di nursery aziendale ante litteram – di Favignana hanno incentrato sulla conoscenza e sul trattamento di questo animale, migratore e di alto mare, le loro esistenze. Oggi la tonnara non esiste più, è stata dismessa nel 2007 quando vennero pescati solo 100 tonni: per dare un termine di paragone a fine Ottocento potevano essere anche più di 10mila. Il tonno rosso in quegli anni era in forte sofferenza, il prelievo ittico era stato massiccio e la specie ha rischiato grosso. L’introduzione di quote pesca ha fatto sì che il tonno rosso sia tornato nel Mediterraneo.
Siamo stati qui per la summer school Climate change & sustainable development, clean oceans and safeguard of the seas ospitata nell’area marina protetta delle isole Egadi: dieci giorni in cui ragazzi delle medie e superiori hanno avuto l’opportunità di approfondire tematiche cruciali come la tutela dell’ambiente marino tramite la costituzione di aree marine protette, le politiche di sviluppo sostenibile, l’inquinamento da plastiche e la pesca sostenibile. Per una settimana hanno seguito lezioni frontali su ecosistema e sostenibilità, ma hanno anche assistito a quello che succede all’ospedale delle tartarughe ospitato nello stabilimento, hanno visto con i loro occhi le praterie di posidonia oceanica a Marettimo e hanno analizzato la presenza di rifiuti plastici attraverso la guida attenta di due biologi marini ed esploratori del magazine di divulgazione scientifica National Geographic, Martina Capriotti e Giovanni Chimienti. Il 2050 è spesso citato dagli studiosi come uno spartiacque: l’anno X che segna il punto cruciale per il raggiungimento degli obiettivi sul clima, ma anche l’anno in cui gli effetti del riscaldamento globale saranno evidenti, ancor più di oggi. Questi ragazzi, adolescenti e preadolescenti, allora saranno poco più che quarantenni e, magari, qualcuno di loro per quel momento si starà battendo strenuamente per la tutela del mare e della biodiversità grazie al seme delle coscienza ambientale piantato in una di queste giornate.
La maggior parte dei ragazzi che hanno preso parte alla summer school è residente a Marettimo, isola delle Egadi che, insieme a Favignana, Levanzo e alle piccole Formica e Maraone, fa parte dell’area marina protetta (amp) delle Egadi che, con i suoi 53.992 ettari, è la più estesa d’Italia, rappresentando un quarto di tutte le aree marine del nostro paese. Loro che questo mare cristallino, custode di tanta biodiversità, lo hanno come compagno di vita da quando sono nati, sono chiamati in prima persona a difenderlo con tutte le loro forze: instillare in loro questa consapevolezza è importante per la sopravvivenza di questo territorio, che è un laboratorio per la diversità a cielo aperto.
Istituita nel 1991, l’area delle Egadi ha visto negli ultimi anni un intensificarsi delle proprie attività, sia per quanto riguarda la quantità, che la qualità: merito delle persone che ci lavorano, dedite anima e corpo alla causa, ma anche al sostegno di privati. Come Bolton Food (gruppo che produce e commercia beni di consumo nel settore alimentare, come Rio Mare e cosmetico), che al di là della scuola estiva, da dieci anni sostiene l’area marina protetta garantendo strumentazione all’avanguardia e permettendo di realizzare progetti di lungo termine, come l’ospedale per tartarughe di Favignana o l’osservatorio per l’avvistamento delle foche monache a Marettimo: “Quando è stato istituito, questo ospedale era poco più che un centro di primo soccorso”, specifica il direttore dell’amp Salvatore Livreri Console. “Oggi ci lavorano un veterinario e una biologa, possiamo contare su cinque vasche, macchinari come RX, endoscopia e una lampada uv che serve a velocizzare il processo di guarigione del carapace, che altrimenti prevederebbe lunghi bagni di sole”.
Bolton Group ha anche tenuto a battesimo un importante progetto dell’area marina che ha previsto la posa di dissuasori sul fondale, blocchi di cemento sui quali sono posizionati degli arpioni che servono da disincentivo alla pesca a strascico che in questo caso, trattandosi di un’area marina protetta, è totalmente illegale. “In seguito alla posa dei dissuasori la pesca illegale nella zona A, quindi in quella dove le restrizioni sono maggiori, è crollata del 100 per cento, nella B, dove il permesso è concesso a più imbarcazioni, l’abbiamo abbattuta del 90 per cento”, chiude Livreri Console.
“La partnership con l’amp delle isole Egadi per noi è molto importante”, integra Luciano Pirovano, global sustainable director food di Bolton Group. “Anche simbolicamente per l’importanza che Favignana riveste, con la storia dello stabilimento Florio, nella storia del tonno in scatola. Ma soprattutto perché questo arcipelago è ricchissimo di biodiversità. Abbiamo finanziato ad esempio anche la costruzione dell’osservatorio per l’avvistamento della foca monaca: un animale rarissimo che siamo in grado di intercettare con una decina di foto trappole posizionate nelle grotte e con il centro divulgativo del castello di Punta Troia, in corrispondenza del promontorio più frequentato da questi animali, che sono rarissimi. Abbiamo fornito moltissimo materiale didattico perché crediamo nel valore dell’informazione e della divulgazione, soprattutto quando rivolta ai più giovani”.
La specie di tartaruga più diffusa nel Mediterraneo è la Caretta caretta, esemplare che può arrivare a misurare fino a un metro e mezzo di lunghezza e a pesare 110 chili. Le tartarughe, una volta superata la fase iniziale della vita in cui la mortalità è molto alta, non hanno più predatori naturali, ma a minacciarle c’è l’uomo. Le cause più frequenti di ricovero sono dovute alle collisioni con imbarcazioni, a ferite provocate da ami da pesca e lenze e infine, quella più impattante di tutte, dall’ingestione della plastica. I rifiuti plastici abbandonati in mare vengono scambiati per cibo dalle tartarughe, che essendo onnivore li mangiano, questi pezzi di plastica si accumulano poi nel loro stomaco provocando il galleggiamento dell’animale che, sempre più debole, non riesce più a nuotare o alimentarsi e muore.
Ogni anno vengono effettuati, nel centro di recupero di Favignana, circa 60 salvataggi: la degenza può durare pochi giorni o settimane, ma anche mesi. Nei casi più gravi di ingestione di plastica ad esempio, le tartarughe devono essere alimentate con pesci molto grassi, come sarde, per far sì che, progressivamente, il loro corpo riesca ad espellere la plastica attraverso le feci. Non da ultimo, devono essere poi sovralimentate con integratori per far sì che riprendano peso.
Nei nostri mari c’è una risorsa in grado di sprigionare ossigeno per due volte tanto rispetto alla Foresta Amazzonica e noi la maltrattiamo: è la posidonia oceanica. Una pianta, attenzione, non un’alga, molto importante sia perché produce ossigeno, ma soprattutto perché è funzionale a creare un habitat attrattivo per pesci e altri organismi marini e che quindi preserva la biodiversità di un certo territorio. E poi perché, non da ultimo, è in grado di sequestrare dall’ambiente moltissima CO2, che accumula nel fusto.
Il fatto che la posidonia oceanica sia endemica del Mediterraneo, ovvero che cresca solo qui, ci impone di salvaguardarla il più possibile, attraverso ad esempio l’istituzione di aree marine protette. La minaccia maggiore per la posidonia è infatti la presenza e la poca accortezza dell’uomo: interi ciuffi vengono strappati dall’ancoraggio delle barche che non prestano attenzione a dove si stanno ormeggiando, per questo è importante che ci siano delle zone in cui vige il divieto assoluto di ancoraggio, come le zone A delle amp, dove solo pochi natanti, tutti al di sotto dei 9 metri e di proprietà di residenti, hanno la possibilità di transitare, ma non di ancorarsi.
La posidonia oceanica è importantissima e funzionale all’ecosistema anche quando perde le foglie che, come succede a tutte le piante, si staccano dal fusto e muoiono. “In questo caso non cadono a terra, ma la corrente le spinge sulla spiaggia, dove vanno a formare delle banquette. Spesso, soprattutto se ci sono degli stabilimenti balneari, le banquette vengono pulite, togliendo le foglie morte di Posidonia dalla spiaggia, ma in realtà queste hanno un ruolo importantissimo nel contrastare l’erosione costiera”, spiega il biologo marino ed Explorer di National Geographic Giovanni Chimenti, “per questo è molto importante che vengano condotte sempre più campagne di sensibilizzazione sulla posidonia”.
Bolton Food al mare deve molto: il gruppo è proprietario del brand Rio Mare, che è il secondo produttore al mondo di tonno in scatola, dalla salute di questa risorsa (il tipo di tonno che viene utilizzato per produrre le scatolette è il tonno pinne gialle o il tonnetto striato) dipende la sua sopravvivenza.
“Il momento di svolta per noi è stato il 2008”, racconta Luciano Pirovano di Bolton Group. “In quell’anno l’intera industria del tonno si è trovata a dover fare i conti con il tema della sostenibilità, di cui chiedevano conto da un lato le associazioni animaliste, e dall’altro i clienti. Sia il Wwf e sia Greenpeace uscirono con delle campagne sull’insostenibilità dell’industria del tonno e per noi fu una specie di shock, di sveglia. La prima cosa in assoluto che abbiamo fatto è stato quindi fondare la fondazione International seafood sustainability (Issf), associazione che è riuscita a portare la scienza nella pesca del tonno. La Issf può contare su scienziati e biologi marini e ha un budget, finanziato per il 50 per cento dalle aziende che ne fanno parte, di 10 milioni di dollari all’anno da dedicare interamente allo studio del tonno e alla sostenibilità del suo prelievo ittico. Questo è stato il primo step nella nostra strategia di sostenibilità, seguito poi nel 2011 dalla nostra strategia di sostenibilità che metteva, a fianco al pilastro della pesca del tonno in maniera sostenibile, anche quello di diritti umani e del trattamento dei lavoratori, della produzione nel suo insieme, quindi della riduzione delle emissioni di CO2 e del consumo di acqua e infine la correlazione tra salute e consumo di pesce”.
Il percorso di Bolton Food è poi proseguito nel 2017, quando è stata siglata la partnership di trasformazione con il Wwf (poi rinnovata nel 2021 e ora di nuovo in scadenza nel 2024). “Stiamo lavorando per rinnovare la partnership con il Wwf, che per noi è molto importante perché il legame con loro ci ha imposto di portare la nostra catena di approvvigionamento a un livello ancora superiore. Abbiamo dovuto impegnarci per migliorare la nostra roadmap di approvvigionamento: entro il 2024 il 100 per cento del nostro tonno arriverà da aree di pesca certificate Msc (organizzazione internazionale non profit nata per studiare e affrontare il problema della pesca non sostenibile con lo scopo di garantire l’approvvigionamento di prodotti ittici anche per il futuro), ma non solo: nel 2021 il Wwf ha alzato l’asticella impedendoci di includere dalle aree di pesca tutte quelle, anche Msc, dove ci sia un problema di sovrasfruttamento dello stock ittico. Il problema attualmente più grosso che abbiamo è infatti relativo al tonno pinne gialle, che nell’oceano Indiano è sovrasfruttato e che fino a poco tempo fa rappresentava il 30 per cento del nostro approvvigionamento, ora siamo calati al di sotto di questa soglia”.
L’altro grande impegno da parte di Bolton Food è sulla trasparenza e tracciabilità della filiera: “Quando si parla di filiera del tonno, difficilmente questa è conosciuta: noi rendiamo pubblico sui nostri siti l’intero percorso di approvvigionamento, comprese le barche da cui proviene il tonno che utilizziamo. Tutto il sistema è certificato ISO 22500, che è il miglior standard della filiera agroalimentare. Non solo, grazie alla partnership con Oxfam (organizzazione formata da 21 confederate leader mondiale nei progetti di sviluppo in ambito sociale), che abbiamo siglato per una durata quadriennale, abbiamo introdotto determinati concetti che non appartenevano al nostro know how: come l’utilizzo della metodologia Human Rights Assestment che è molto solida e si ispira migliori standard delle Nazioni Unite e dell’Ocse e che è relativa alle filiere: ci hanno fatto ad esempio introdurre il concetto di living wage, ovvero che tutti i lavoratori ricevano un salario che consenta loro di avere delle condizioni di vita decenti, che vanno parametrate sul costo della vita nel luogo di residenza, ma che non considerano solamente la mera sussistenza, ma anche la possibilità di avere accesso alla sanità, allo svago, avere una vita dignitosa. Nel mondo della pesca è un concetto abbastanza rivoluzionario, che va oltre quello di salario minimo.
“Siamo in via di rinnovo della partnership con LifeGate per quanto riguarda il mantenimento per altri due anni di un Seabin, ovvero uno speciale cestino mangiaplastica nel porto di Favignana, iniziativa che fa parte del progetto ambientale PlasticLess, oggi in evoluzione nella più ampia Water Defenders Alliance, una coalizione che vede la collaborazione di aziende, porti, comuni, università e cittadini che si battono insieme per un unico scopo: difendere il Mediterraneo”. Dal 2018 LifeGate PlasticLess ha contribuito alla diminuzione dell’inquinamento marino attraverso la raccolta dei rifiuti plastici nelle acque dei porti, marine e nei circoli nautici. Oggi è sfociato in Watar Defenders Alliance allargando il raggio d’azione anche alla tutela degli habitat e alla lotta all’inquinamento chimico.
Del resto, dalla pesca dipende non solo parte della nostra alimentazione, ma anche la sussistenza di moltissime persone in tutto il mondo, serve però che sia regolamentata e che i player del settore si coalizzino per non depauperare in modo irreversibile i nostri mari. Dalla salute del mare nel suo complesso dipende un sistema interconnesso che va dalla quantità di CO2 presente nell’aria alla salvaguardia delle specie marine fino alla sicurezza e alla prosperità delle comunità che vivono sulle isole o in prossimità delle coste. Portare i ragazzi a “scuola di biodiversità” in una cornice pazzesca come quella di Marettimo e farli stare a contatto con chi ha deciso di dedicare i propri studi e la propria vita alla salvaguardia del mare è un buon modo per contribuire a costruire una coscienza collettiva solida. Chi vive e abita queste isole è il custode designato della ricchezza che conservano e che oggi è in pericolo.
Si ringrazia Bolton Food per averci invitato al press tour nelle isole Egadi, da cui è nato questo contenuto.
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