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Da Israele a Gaza attraverso fake news e propaganda
Il conflitto in Medio Oriente sta dando vita a una escalation di fake news e propaganda online senza precedenti. Uno stress test per i social network come X.
Dal momento dell’invasione di Israele da parte di Hamas, i social network si sono riempiti di contenuti d’ogni tipo sul conflitto. Soprattutto su X, l’ex Twitter, sono circolate per molto tempo video e immagini false e fuorvianti, che si spacciavano come ultime notizie dalla striscia di Gaza e risalivano invece alla guerra in Ucraina o, ancora più stranamente, a videogiochi come Arma 3. Quest’ultimo è un titolo del 2013 – nemmeno troppo recente, quindi – le cui scene sono state spacciate online come “vere”, con ottimi risultati, raccogliendo mezzo milione di visualizzazioni su Twitter e tre milioni e mezzo su TikTok.
Eventi drammatici e improvvisi come quelli in corso sono da sempre il bersaglio ideale delle campagne di disinformazione sui social network. In particolare a partire dal 2016, dopo Brexit e l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, le piattaforme principali cominciarono un lento – e controverso – programma di riforme, dando maggiore peso e importanza alla moderazione dei contenuti. Una campagna ha si è esaurita a partire dal 2021, dopo la messa al bando di Donald Trump dai social network più noti (a seguito del suo appoggio ai manifestanti che attaccarono il Campidoglio, il 6 gennaio 2021), e che da allora ha lasciato il posto a una sorta di “controriforma” che ha allentato le maglie della moderazione dei contenuti. L’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk è stato forse l’evento-cardine che ha segnato l’inizio di una nuova stagione di laissez-faire delle piattaforme.
Insomma, fake news come quelle viste in questi giorni ci sono sempre state: a stupire è stata semmai la velocità con cui si sono diffuse, oltre che l’assenza di moderazione. Del resto, una delle prime decisioni da proprietario di Twitter prese da Musk fu il licenziamento di buona parte dei dipendenti della società, soprattutto le squadre che si occupavano di moderare i contenuti e perseguire gli utenti più molesti. I risultati del far west risultante sono evidenti ora, assieme a una generale trasformazione del feed di X, che secondo alcuni è risultato “inutile” a chi voleva seguire il conflitto tra Israele e Gaza. È una novità importante: dalle primavere arabe del 2012 in poi Twitter è stato “il” social network preferito da chi voleva informare e informarsi su eventi simili, attirando un pubblico di attivisti, giornalisti e appassionati. Ora non più, a quanto pare.
Quanto a Tiktok, la situazione è spinosa data la potenza dell’algoritmo di raccomandazione, in grado di individuare i contenuti “giusti” per un certo tipo di utenti, creando spesso delle bolle informative dove circolano teorie cospiratorie e bufale. Non è un caso che sia X che Tiktok siano stati ripresi pubblicamente dall’Unione europea nella persona di Thierry Breton, Commissario europeo per il mercato interno e i servizi, che in una lettera rivolta all’amministratore delegato di Tiktok e quello di Alphabet (di cui fa parte Youtube, altra piattaforma incriminata), ha richiamato l’attenzione su “un’ondata di contenuti illegali e di disinformazione” che violerebbe la normativa europea, il Digital Services Act.
Il conflitto in corso può fungere da stress test per le piattaforme, specie in vista delle prossime elezioni statunitensi, previste per l’anno prossimo: un evento traumatico che mette alla prova un sistema per identificarne la solidità e gli eventuali punti critici. Ebbene, se di questo si tratta, possiamo dire che le piattaforme non l’hanno superato; anzi, in alcuni casi, sembrano pronte a ripetere gli errori fatti nel decennio precedente, mentre a rendere più facile il lavoro delle troll farm che producono fake news ci pensano ora le intelligenze artificiali, in grado di sfornare video, contenuti e messaggi d’ogni tipo, in un istante.
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