Israele-Hamas, il conflitto divide il mondo: le reazioni delle diplomazie

Una mappa per comprendere in che modo i governi di tutto il mondo hanno reagito agli attacchi di Hamas e alla risposta di Israele nella Striscia di Gaza.

Il governo della Bolivia ha annunciato nella giornata di martedì 31 ottobre la rottura delle proprie relazioni diplomatiche con Israele. La nazione sudamericana ha spiegato che la ragione è legata direttamente all’offensiva che la nazione ebraica sta conducendo nella Striscia di Gaza, dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre. Il paese guidato dal presidente progressista Luis Arce è stato il primo dell’America Latina ad aver assunto una decisione così drastica. “In questo modo – ha dichiarato il vice ministro degli Affari esteri nel corso della conferenza stampa – intendiamo condannare l’operazione militare israeliana, che giudichiamo aggressiva è sproporzionata”.

La posizione della Bolivia criticata da Israele: “Capitolano di fronte ai terroristi”

E con la Striscia di Gaza ormai in preda alla distruzione, ed un bilancio di vittime che si avvicina drammaticamente alla soglia spaventosa dei diecimila morti (molti dei quali bambini), l’iniziale solidarietà che Tel Aviv aveva ricevuto all’indomani degli attacchi di Hamas potrebbe cominciare a vacillare. Non di certo negli Stati Uniti e in Europa, dove le voci critiche risultano ancora poche e le diplomazie nazionali e sovranazionali continuano ad appellarsi al “diritto di difendersi” dello stato di Israele.

La presidenza boliviana ha fatto sapere di chiedere apertamente “la fine degli attacchi che hanno causato migliaia di morti civili e la deportazione dei palestinesi”. La Bolivia aveva già rotto le relazioni diplomatiche con Israele nel 2009: all'epoca il presidente Evo Morales aveva protestato contro un'altra serie di attacchi nella Striscia di Gaza. E lo stop al dialogo è durato fino al novembre del 2019.

Il sospetto di crimini di guerra pesa su Tel Aviv

Israele ha reagito duramente, affermando che quella di La Paz è “una capitolazione di fronte al terrorismo e al regime degli ayatollah iraniano”. La realtà, però, è che il comportamento del governo della nazione ebraica confronti dei palestinesi comincia ad apparire ingiustificabile anche ad altre diplomazie, oltreché passibile di violazioni del diritto umanitario se non addirittura di crimini di guerra, come ipotizzato da alcune organizzazioni non governative e dalle stesse Nazioni Unite.

Non a caso, la scorsa settimana il Cile e la Colombia hanno annunciato di aver richiamato i loro ambasciatori nello stato di Israele, proprio in segno di protesta. Il ministero degli Affari esteri cileno ha spiegato in un comunicato che la decisione e figlia delle “accettabili violazioni del diritto umanitario nella Striscia di Gaza. Condanniamo con forza e osserviamo con grande preoccupazione le operazioni militari che rappresentano una punizione collettiva per la popolazione civile palestinese di Gaza”.

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Carri armati israeliani © Jalaa Marey/Afp/Getty Images

La Giordania richiama l’ambasciatore. Malumori negli Emirati Arabi Uniti

Poco dopo, anche la Giordania - paese che ha firmato un accordo di pace con Israele nel 1994 - ha adottato una decisione analoga. Si tratta del primo paese arabo musulmano a richiamare il proprio ambasciatore in segno di protesta. Al contempo, il governo di Amman ha anche notificato a Tel Aviv la richiesta di non far rientrare sul proprio territorio l'ambasciatore israeliano, che aveva già lasciato la Giordania.

Si tratta di una dinamica che potrebbe provocare un effetto a cascata. Negli emirati arabi uniti, ad esempio, la scelta di Amman non è passata in osservata. La nazione ha stabilito relazioni diplomatiche con Israele in virtù cosiddetti accordi di Abramo firmati nel 2020, ma il docente universitario Abdulkhaleq Abdulla, considerato molto vicino al governo tanto da rappresentarne in qualche modo una voce ufficiosa, ha espresso su X il proprio “rispetto per quei paesi vicini o lontani che hanno deciso di non tacere di fronte agli attacchi barbari di Israele”.

Bahrein, Egitto, Kuwait, Tunisia: aumenta la pressione sui governi

Giovedì 2 novembre anche il parlamento del Bahrein, che allo stesso modo ha firmato un accordo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche nel 2020 con Israele, ha annunciato la richiesta di una rottura di rapporti economici con Tel Aviv. Si tratta di un'indicazione non vincolante che per ora non è stata raccolta dal governo, ma che politicamente ha un valore evidente.

In Egitto, similmente, anche la stampa di regime pubblica editoriali che invitano il governo ad “espellere l’ambasciatore dello stato sionista”. E in Kuwait, nazione che non ha relazioni diplomatiche ufficiali con Israele, nel mirino sono finiti gli Stati Uniti: si stanno moltiplicando infatti le voci che chiedono al governo di non accogliere la nuova ambasciatrice americana, che si prevede entri esercizio delle proprie funzioni alla fine del mese.

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Le operazioni di ricerca e soccorso dopo un bombardamento israeliano sulla Striscia di Gaza © Abed Rahim Khatib/Anadolu via Getty Images

Al contempo il parlamento del Kuwait, mercoledì 1 novembre, ha approvato una serie di risoluzioni che chiedono di introdurre delle sanzioni contro Israele, nonché a perseguirne il primo ministro Benjamin Netanyahu in quanto "criminale di guerra”. Fine, il parlamento della Tunisia sta discutendo un progetto di legge che criminalizza e punisce con la detenzione chiunque commette il "crimine di normalizzazione" delle relazioni con lo Stato di Israele.

Hamas-Israele, un mondo diviso di fronte al conflitto

Più in generale, una mappa pubblicata dalla testata francese Le Grand Continent, mostra come il mondo non sia affatto un anime nel proprio supporto a Tel Aviv. Se l'Europa, l'America settentrionale, l'Australia, l'India si sono infatti schierate apertamente con lo Stato ebraico, un'altra metà del mondo ha assunto una posizione decisamente diversa. Dal Brasile al Messico, dalla Cina alla Russia, dal Sudafrica al Cile e alla Nuova Zelanda, la richiesta è di una de-escalation immediata. Ovvero, di fatto, di un passo indietro da parte di Israele, perlomeno rispetto alle modalità che sono state fin qui utilizzate nella risposta agli attacchi di Hamas.

A ciò si aggiunge poi il fatto che una fetta non indifferente dei paesi africani, finora, non si è espressa, evitando di assumere una posizione netta in maniera ufficiale. Inoltre, una serie di nazioni del Maghreb, del medio oriente, del sud-est asiatico e dell'America centrale si sono schierate con la resistenza palestinese.

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