Dopo un mese di razionamenti, sono stati completati i lavori per la condotta provvisoria che porterà l’acqua dal fiume alla diga di Camastra, ma c’è preoccupazione per i livelli di inquinamento.
Perché il processo del Sudafrica contro Israele segna l’inizio della fine del neocolonialismo
Portando Israele davanti alla Corte dell’Aia, Il Sudafrica sta mettendo alla prova la pretesa di superiorità morale dell’occidente.
Che la guerra in corso nella Striscia di Gaza possa rappresentare l’inizio della fine del neocolonialismo occidentale sui paesi del cosiddetto “sud del mondo”, è quanto sostenuto, più o meno esplicitamente, da diverse fonti arabe e non pubblicate in questi giorni.
Sono giorni in cui il bilancio dei morti palestinesi ha toccato 25mila persone (di cui il 40 per cento sono bambini) e il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha ribadito il suo rifiuto di riconoscere uno stato palestinese, ovvero di perseguire la soluzione a due stati anche in cambio del rilascio di tutti gli ostaggi da parte dell’organizzazione estremista Hamas.
Ma sono soprattutto i giorni dopo la decisione del Sudafrica di portare lo stato d’Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia (Cig) dell’Aia, con l’accusa di genocidio. E questo fatto comporta una serie di riflessioni sulla geopolitica del prossimo futuro.
La posizione del Sudafrica: opportunismo o altruismo?
Secondo una tassonomia ormai superata (che però permane ancora in certi casi), il mondo si divide in paesi industrializzati, in via di sviluppo (o emergenti) e paesi del terzo mondo. Si tratta di una divisione meramente economica, in cui i ricchi impongono la propria visione del mondo, fatta di valori morali, etici e politici (si pensi all’espressione “esportatori di democrazia”) ai paesi più poveri.
Eppure è stato il Sudafrica, e non gli Stati Uniti o l’Unione europea, a costringere Israele a difendersi dall’accusa di genocidio attraverso un documento di 84 pagine nelle quali, oltre a indicare Tel Aviv come responsabile della pulizia etnica del popolo palestinese, ha anche ribadito il suo appello per un immediato cessate il fuoco a Gaza, proponendo l’apertura di corridoi che permettano all’assistenza umanitaria di raggiungere coloro che ne hanno bisogno, nonché il rilascio degli ostaggi e dei prigionieri politici. Infine, il Sudafrica ha anche chiesto una soluzione a due Stati che rispetti i confini pre-1967, per i quali rientrano nei territori palestinesi la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme est.
Non sfugge a nessuno come il Sudafrica sia una democrazia giovane (un’economia emergente, come da etichettatura attuale) nata dalle ceneri di uno spregevole sistema di apartheid, razzista, a cui attivisti dell’African national congress (Anc) guidati dallo statista Nelson Mandela hanno posto fine nel 1994. E questo spiega (in parte) l’appassionato sostegno di Pretoria alla causa palestinese. Vero è che, come spiega l’emittente del Qatar Al Jazeera, l’ormai defunto Mandela aveva avviato all’epoca un proficuo scambio con l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat. Mandela affermava che la libertà del Sudafrica fosse incompleta senza la libertà della Palestina.
- Il sito indipendente egiziano Mada Masr presenta la lista delle prove fornite dal Sudafrica a sostegno della sua accusa.
Quella posizione così netta è stata ora ripresa dall’attuale capogruppo dell’Anc, Pemmy Majodina, che ha dichiarato al parlamento che il Sudafrica deve sospendere le relazioni diplomatiche con Israele fino a quando non sia stato concordato un cessate il fuoco (finora respinto da Usa ed Europa) e Israele non si sia impegnato in negoziati vincolanti.
C’è chi fa presente che la posizione del Sudafrica sia dettata dall’opportunismo, più che dall’altruismo, dal momento che a maggio ci sono le elezioni nazionali e l’attuale presidente Cyril Ramaphosa ha perso sostegno nell’elettorato, soprattutto dopo una serie di scandali legati a casi di corruzione. Ma Ramaphosa a parte, è pur vero che l’Occidente abbia spesso visto l’Africa come un “continente arretrato” senza la capacità di contribuire o guidare un cambiamento significativo. E questa iniziativa potrebbe sovvertire le cose.
Il divario tra realtà palestinese e il modo in cui noi occidentali la descriviamo
Quelle che sono andate in scena alla corte dell’Aia saranno state anche solo sei ore di dibattito legale, ma tanto è bastato per focalizzarsi sul bisogno più ampio, come dice la columnist Nesrine Malik sul quotidiano britannico Guardian, di “colmare il divario tra la realtà palestinese e il modo in cui le forze politiche dominanti la descrivono”. La rabbia per gli eventi di Gaza si riversa nelle strade di tutta Europa. Eppure questa rabbia è stata decisamente ignorata, respinta e vietata dai leader politici occidentali. Il sostegno pubblico a un cessate il fuoco non si riflette nelle posizioni dei governi, nessun politico occidentale di rilievo ha condannato la violenza israeliana: il Sudafrica sta colmando questo vuoto.
In questo senso, non conta tanto la sentenza finale quanto il fatto che il caso sia stato presentato. Qualcuno ha raccolto quella frustrazione nelle piazze e l’ha portata in tribunale e quel qualcuno è il Sudafrica, che 30 anni fa metteva fine a una pagina di colonialismo bianco e razzista segnato dall’orrenda pratica dell’apartheid. E nel conflitto odierno il colonialismo torna a essere protagonista. Primo perché, storicamente, possiamo affermare che Israele abbia colonizzato la Palestina, e non il contrario (a questo proposito si leggano le opere degli storici moderni israeliani, tra cui Ilan Pappé), e poi perché i paesi del cosiddetto sud del mondo stanno cogliendo l’occasione per ribellarsi contro il dominio del nord: è in questo quadro che va letta, per esempio, la denuncia della Namibia contro il sostegno della Germania a Israele. Il paese africano ha fatto esplicito riferimento al “primo genocidio del Ventesimo secolo”, quello condotto dalla Germania e per il quale i tedeschi “devono ancora fare piena ammenda”.
Il potere sta inesorabilmente scivolando dalle mani dei colonizzatori
Fino a questo momento, i paesi del nord del mondo si sono auto-nominati “custodi” della moralità globale e sono diventati i giudici di una politica estera in cui i deboli sono protetti e gli aggressori perseguiti: almeno, questo è quello che ci è stato venduto “sulla carta” quando, per esempio, gli Stati Uniti hanno invaso prima l’Afghanistan e poi l’Iraq a caccia di terroristi. Ma questa volta il nord ha dimostrato di aver sbagliato e di aver preferito la difesa degli aggressori: un fatto che ha tolto quel velo di credibilità sotto il quale i paesi ricchi si sono nascosti per secoli. Un velo fatto anche di diritto internazionale, poiché questo, così come le “regole di guerra”, sono da intendersi come convenzioni create dai paesi del nord come regole proprie, regole che servono a risolvere i conflitti tra paesi del nord. Non sono mai state pensate per essere rivendicate dagli stati del sud (anche perché quando il diritto internazionale muoveva i suoi primi passi, i paesi del sud erano colonie europee).
Ora il sud sta dimostrando che può scardinare un sistema internazionale creato per favorire il nord del mondo. Speriamo che la Corte internazionale di giustizia dia a queste speranze il sostegno che meritano, ma qualunque sia l’esito, questo processo verrà ricordato per aver messo sotto accusa non solo Israele per genocidio, ma anche il nord globale per la sua ipocrisia e i suoi pregiudizi contro il sud.
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