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It will be chaos, il documentario che mostra il vero volto della crisi migratoria
Con il docufilm It will be chaos, Lorena Luciano e Filippo Piscopo fotografano la crisi migratoria del Mediterrano “ad altezza d’uomo”, restituendo dignità e verità ai protagonisti di un fenomeno complesso e sempre più frainteso. Il loro racconto in questa intervista.
Come raccontare un fenomeno complesso come quello della crisi migratoria che, tra il 2011 e il 2018, ha già visto inabissarsi nel Mediterraneo le vite e le speranze di oltre diciottomila persone, lungo una rotta oggi considerata la più pericolosa al mondo? A chiederselo sono stati Lorena Luciano e Filippo Piscopo, due registi (e coniugi) italiani, che da vent’anni vivono negli Stati Uniti e portano avanti, con successo, la professione di documentaristi, specializzati in tematiche sociali. La loro risposta è stata il docufilm It will be chaos – Sarà il caos, prodotto dalla Hbo e presentato il 2 ottobre al Milano Film Festival, nel contesto dell’Immigration Day.
It will be caos, la trama del docufilm
Per realizzare questo film marito e moglie hanno viaggiato, per cinque anni, tra gli epicentri della crisi e le comunità di frontiera, hanno conosciuto i rifugiati, i sopravvissuti e gli operatori umanitari e hanno parlato con le autorità e i cittadini italiani che si trovano a vivere in prima linea questo dramma. Hanno visto coi loro occhi e filtrato attraverso i loro obiettivi la tragedia del 3 ottobre 2013, quando – esattamente cinque anni fa – al largo di Lampedusa 368 migranti persero la vita, a causa di uno dei più grandi naufragi degli ultimi quarant’anni. E hanno affrontato in prima persona il durissimo “viaggio della speranza”, dalla Turchia alla Germania, insieme a una famiglia siriana e a milioni di altri rifugiati in cerca di salvezza. Un coro di voci e una piccola schiera di volti, in grado di restituire una dimensione umana a un fenomeno sempre più rarefatto e confuso. Un fenomeno sempre più politicizzato e caotico, come espresso anche dal titolo del film e come ci ha spiegato Lorena Luciano, durante la nostra intervista: “Il “caos” è anche riferito alla mancanza di ordine in questa crisi migratoria, che è gestita come un’eterna emergenza, invece che attraverso politiche a lunga scadenza e di larghe vedute”. Già distribuito in tutto il mondo, con riscontri entusiastici da parte di pubblico e critica (il film è stato anche premiato per la miglior regia all’ultimo Festival di Taormina) It will be chaos andrà in onda anche domenica 7 ottobre dalle 21.15 su Sky Atlantic per il ciclo Il racconto del reale.
Un documentario come questo richiede un lavoro lungo e articolato. Quanto è durata la lavorazione?
Il film parte dal 2013, ma noi abbiamo iniziato a lavorarci nel 2011, nel pieno della pimavera araba. In quel momento negli Stati Uniti, nostro Paese d’adozione da vent’anni, hanno iniziato a prendere il sopravvento le immagini di questi barconi colmi di uomini e donne in balia delle onde. Allora abbiamo deciso di andare a vedere di persona cosa stava accadendo a Lampedusa e lì ci siamo trovati di fronte a una realtà molto più complessa di quella riportata. Una realtà fatta di persone che arrivavano in Italia, non con l’intenzione di rimanerci, ma che di fatto si ritrovavano “parcheggiati” qui per anni. In pratica si creava per loro uno stato di limbo legale, dovuto alla totale incapacità delle autorità di gestire questi numeri, che non sarebbero grandi se fossero oculatamente suddivisi, ma che diventano enormi se vengono concentrati in piccole località, come Lampedusa, Riace, Falerna, dove poi siamo stati.
Avevate già un’idea precisa del film che volevate realizzare?
Diciamo che da quel momento abbiamo iniziato a viaggiare, per capire come raccontare questa storia. Per noi l’importante era fare un mosaico, senza “intervistone” a professori o politici e senza voci fuori campo. Volevamo piantare la telecamera “a misura d’uomo”, sulla terra, e dare la parola a persone che potessero, da sole, raccontare l’evoluzione della crisi in fieri. Volevamo mostrare da vicino queste piccole comunità di frontiera, dove le persone e i sindaci vedono davvero la sofferenza di chi arriva, lottando e facendo un lavoro enorme per aiutarli. E parliamo di realtà che, per prime, faticano a sopravvivere e a gestire le poche risorse che hanno, mentre a Roma e Bruxelles si continuano ad attuare le grandi politiche di emergenza, allocando fondi solo nel momento della crisi, per poi scomparire. Durante i nostri viaggi ci siamo resi conto del grande scaricabarile politico e amministrativo in atto, ma abbiamo anche iniziato a conoscere le persone del luogo, i pescatori, le associazioni umanitarie e a capire le tante contraddizioni.
Dopo questi cinque anni avete notato se la percezione della crisi migratoria è cambiata nella gente?
No, non è cambiata. E il nostro film ha proprio questo ruolo: di dare una visione diversa e più complessa del fenomeno. Quello che arriva all’estero è l’idea di un’Italia completamente assalita dai migranti, che succhiano tutte le risorse del Paese, scatendando una reazione di rifiuto e rabbia nelle persone. Questa è la visione monolitica e molto basica, che si ha in America e Sud America. Per noi era molto importante fare un film dove non ci fossero né santi né diavoli, ma che mostrasse la complessità di una situazione in cui le persone sono divise tra la frustrazione e la compassione.
Il vostro documentario tenta di fare questo dando un volto a questi rifugiati. Come avete scelto i protagonisti e le storie da raccontare?
Aregai, il ragazzo Eritreo, era uno dei sopravvissuti nella tragedia del 3 ottobre 2013 a Lampedusa. Lui era uno dei pochi che parlava inglese e questo è stato fondamentale per poter comunicare e creare un rapporto diretto. Per questo motivo lui è stato anche un leader per gli altri sopravvissuti e faceva da ponte tra loro e le autorità. Ci siamo piaciuti e fidati subito. La famiglia siriana di Wael Orfahli invece è arrivata in un secondo momento, quando in realtà eravamo già quasi in fase di post-produzione. Una funzionaria delle Nazioni Unite che conosceva il nostro lavoro ci ha presentato Sara Bergamaschi, un’attivista umanitaria che sei mesi prima aveva aiutato il fratello minore di Wael ad arrivare in Germania e che poi è diventata la produttrice associata del nostro fim. Lei ci ha messi in contatto con loro e in pochi giorni abbiamo dovuto decidere cosa fare.
E poi avete deciso di partire.
Sì, li abbiamo raggiunti a Smirne, in Turchia, dove la famiglia era arrivata dalla Siria e in procinto di prendere un barcone per la Grecia e abbiamo intuito che, provando a raccontare come un microcosmo la storia di Wael, avremmo potuto raccontare la storia di tutte quelle famiglie che, per salvarsi e salvare la vita ai propri figli, devono affrontare questo viaggio. E così abbiamo attraversato con loro nove Paesi in condizioni difficilissime e in mezzo a un milione di altri rifugiati, tutti in movimento lungo il canale balcanico.
Com’è stato affrontare questo “viaggio della speranza”?
È stato faticosissimo. Abbiamo sempre camminato con loro, siamo saliti sui treni dei rifugiati, dormito nei centri di accoglienza, senza mai fermarci. Una fatica dovuta anche al fatto che noi viaggiavamo appesantiti dall’attrezzatura tecnica e che, spesso, non potevamo neanche dormire, perché avevamo telecamere e altre cose di valore con noi. Ma oltre alla fatica fisica, c’è stata per noi anche una costante tensione “tecnica”, dovuta alla difficoltà nel ricaricare le batterie degli strumenti o di fermarci a scaricare le memorie delle telecamere. È capitato, per esempio, di dover decidere di cancellare delle scene per poterne girare altre all’ultimo momento.
La famiglia come ha vissuto la vostra presenza?
Si è creato un bellissimo rapporto. Noi abbiamo due figli, che hanno la stessa età di due dei loro, e quindi Wael e sua moglie hanno sentito che c’era una forte immedesimazione da parte nostra. Inoltre per loro la nostra presenza, sempre discreta, è stata anche rassicurante. Bisogna pensare che queste persone parlano solo arabo e viaggiano in mezzo a un milione di altre persone disperate, sapendo di entrare in Paesi dove non sono voluti. Quindi, avere qualcuno accanto che parlava inglese, con un passaporto e i mezzi che potevamo avere noi, è stato sicuramente positivo per loro.
Cosa ha mosso in voi tutta questa esperienza?
Una grande voglia di far vedere il film a due gruppi di persone in particolare. In primis ai rifugiati stessi, che sono spesso ritratti dai media come quelli “brutti, sporchi e cattivi”, mentre noi mostriamo personaggi belli, forti, fieri e con una grande dignità. Persone che si dimostrano veri e propri eroi che, per raggiungere la loro meta, attraversano un’odissea. Noi vogliamo restituire loro questa immagine e un senso vero di quello che sono. Il secondo gruppo sono tutti coloro che del fenomeno si sono fatti delle grandi opinioni, basandosi solo sul sentito dire o su un articolo di giornale. Per noi è importante dare una dimensione umana a una cosa che è così politicizzata e che perde di vista quello che è alla base del fenomeno migratorio: e cioè che se la gente potesse non muoversi dal proprio Paese, non si muoverebbe. In sette anni di guerra undici milioni di siriani sono stati costretti a fuggire e centinaia di migliaia di loro sono morti durante questa fuga. La famiglia di Wael stava bene in Siria prima della guerra. Vivevano in una bella casa, lui lavorava come rappresentante e guadagnava bene. Non gli mancava niente. L’ultima cosa che avrebbero voluto era scappare in Germania, dove non hanno più i loro amici, non conoscono la lingua e devono ricominciare tutto da zero. Per me è diventato importante condividere l’esperienza fatta, per riportare il dibattito a una complessità che si è persa, attraverso questa politicizzazione dai toni falsi e improntati allo scontro. Con la guerriglia non si va da nessuna parte.
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