Nella regione del Sahel, sconvolta da conflitti inter comunitari e dai gruppi jihadisti, 29 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
Perché l’Italia non esclude una nuova guerra in Libia, e cosa c’entra il petrolio
Il governo si dice “pronto a rispondere ad una richiesta di aiuto” della Libia. Dove lavorano decine di imprese italiane, molte nel settore petrolifero.
“Circa 50 uomini delle unità speciali italiane sono pronti a partire” per la Libia. Scriveva così, giovedì 3 marzo, il Corriere della Sera specificando che “i nostri militari avranno le garanzie funzionali degli 007”, e dunque “licenza di uccidere e impunità per eventuali reati commessi. Si andranno ad aggiungere alle unità speciali di altri Paesi – Francia, Regno Unito e Stati Uniti – che già da alcune settimane raccolgono informazioni e compiono azioni riservate”.
“La più grande missione militare dal 1943”
Di preparativi a livello internazionale aveva parlato d’altra parte anche il Daily Mirror, già nel mese di gennaio. E nei giorni scorsi la Repubblica ha rincarato la dose: “Si prepara un’operazione massiccia, la più grande mai realizzata dal 1943. Da mesi gli stati maggiori stanno elaborando piani su piani, ipotizzando un vertice italiano che gestirà uno schieramento di forze europee. La previsione minima è di 3mila militari, la massima supera i 7mila. I due terzi saranno forniti dal nostro Paese”.
Le cifre sono state smentite dal governo, anche se il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha affermato: “Lavoriamo per rispondere ad eventuali richieste di sicurezza del governo della Libia”. Ovvero di in una nazione che, storicamente, è (e continua ad essere) uno dei centri nevralgici degli interessi economici internazionali del nostro paese. A cominciare da quelli legati a petrolio e gas.
#Libia Paese strategico per l’economia del Mediterraneo, le nostre attività https://t.co/rl1KgL0Qly #inmezzora pic.twitter.com/kbs3eSBbIj
— eni.com (@eni) 17 Gennaio 2016
Decine le imprese italiane presenti in Libia
Basti pensare al numero di imprese italiane presenti nello sterminato territorio della nazione nordafricana. Solamente tra quelle specializzate nello sfruttamento di gas e petrolio figurano – secondo un elenco pubblicato dal quotidiano Il Tempo nel febbraio del 2015 – Eni (presente dagli anni Cinquanta), Selex, Sei Special Systems JSC, Saipem, Renco, Mediterranea Progetti, Abb, Mellitah Oil & Gas, Green Stream Bc, Gis – Global International Service, Fiorentini, Expertise, Enerco Distribuzione, Demont Libya, Delma Libya, Cosma, Belleli Energy, Augusta Maritime Service. Indirettamente, poi, è interessata alle vicende del paese nordafricano anche Edison, filiale della francese Edf, che acquista gas libico da Eni.
Un esercito di aziende che non sembra essersi fatto scoraggiare dalle cattive performance registrate lo scorso anno dall’industria energetica libica: secondo il rapporto World oil and gas review di Eni, sono stati prodotti infatti solo 400mila barili di petrolio al giorno, rispetto ad un potenziale stimato di 2 milioni. E solamente 250mila barili al giorno sono stati esportati.
Cifre in ogni caso non indifferenti, se si tiene conto che circa il 90 per cento delle importazioni italiane dalla Libia sono composte proprio da greggio e gas naturale, pari rispettivamente – secondo le informazioni riportate da Panorama – ad un valore di 2,1 e 1,2 miliardi di euro (per il 2014). Ai quali si aggiungono altri 304 milioni di prodotti derivati dalla raffinazione del petrolio.
L’84 per cento del petrolio libico finisce in Europa
Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia, l’84 per cento della produzione di greggio libico finisce in Europa, ed in particolare in Italia, Germania e Francia. Senza dimenticare che il nostro paese risulta anche il primo importatore di gas, che viene veicolato soprattutto attraverso il gasdotto Greenstream che va da Mellita a Gela, in Sicilia, gestito da Eni.
La compagnia petrolifera italiana, nel 2012, aveva presentato un piano di investimenti decennale, da otto miliardi di dollari, per lo sviluppo di produzioni esistenti e per nuove attività. Gli affari tra Roma e Tripoli, insomma, sono sempre stati estremamente importanti. Soprattutto nei decenni di Mu’ammar Gheddafi: solo pochi anni fa, l’allora presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi (come fatto, del resto, anche dal presidente francese dell’epoca, Nicolas Sarkozy) accoglieva il colonnello come un grande amico.
L’arrivo dell’Isis rompe un equilibrio precario
Nel 2011, però, nei confronti del regime libico i governi europei cambiano improvvisamente posizione. Sfruttando i moti della primavera araba sferrano un attacco contro Tripoli, guidato da Parigi. Nel dopoguerra, lo scacchiere in Libia diventa immediatamente molto frammentato: la nazione è attraversata da una guerra tra numerose fazioni, ma dopo un breve periodo di stop le aziende straniere riprendono a lavorare, forse anche grazie ad accordi con le milizie locali, secondo un’accusa mossa nel 2015 dal Wall Street Journal.
A destabilizzare il precario equilibrio è arrivato però lo Stato Islamico. I terroristi sono riusciti infatti ad impadronirsi di alcuni siti petroliferi, hanno attaccato gli impianti di Ras Lanouf (dove si teme un disastro ambientale) e di Es Sider, a est di Sirte. E le truppe, ora, avanzano verso oriente, puntando ad altri giacimenti.
L’obiettivo dell’Isis è di impadronirsi delle risorse e lucrare sul mercato nero (e non solo), come accade già con i pozzi controllati in Siria e Iraq. Uno scenario che l’Occidente appare determinato a scongiurare. Anche a costo di tornare in guerra. Non sarebbe molto più semplice (e indolore) decidere una volta per tutte di abbandonare le fonti fossili, puntando sul risparmio energetico e sulle rinnovabili?
Nell’immagine di apertura, un pozzo petrolifero in fiamme in Libia durante la guerra del 2011 ©John Moore/Getty Images
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