In occasione del suo novantesimo compleanno, ripercorriamo la carriera di Jane Goodall, dal suo inestimabile contributo alla primatologia, fino al suo contagioso attivismo ambientale.
Nel pantheon dei primatologi troviamo Frans de Waal, che col suo sguardo curioso ha contribuito a ridefinire l’essenza della natura umana, Dian Fossey, che ha dedicato, e perso, la sua vita allo studio e alla tutela dei gorilla di montagna, ma al vertice è difficile non scorgere la chioma candida e il sorriso ieratico di Jane Goodall.
Fin da bambina Valerie Jane Morris-Goodall, conosciuta semplicemente come Jane Goodall, nella sua casa di Bournemouth, in Inghilterra, sognava di vivere con gli animali e di scrivere libri e, soprattutto, di andare in Africa. “Il mio amore per gli animali deriva dai libri del dottor Dolittle e il mio amore per l’Africa dai romanzi di Tarzan”, ha spiegato.
In occasione del suo novantesimo compleanno, il 3 aprile 2024, ripercorriamo la vita e la carriera di Valerie Jane Morris-Goodall, conosciuta semplicemente come Jane Goodall, che ha dedicato la sua esistenza tanto alla primatologia, quanto all’ambientalismo. “Nel corso della mia esperienza a Gombe e negli anni successivi, ho imparato di prima mano quanto sia importante per ciascuno di noi comprendere il mondo in cui viviamo” ha scritto la studiosa.
Perché solo se riusciamo a comprenderlo profondamente diventerà importante per noi, e solo quando ci starà davvero a cuore saremo pronti a fare di tutto per difenderlo. È così che si cambiano le cose. È così che potremo realizzare i cambiamenti necessari per vivere in equilibrio e armonia con questo pianeta che chiamiamo casa.
Jane Goodall
Jane sbarca in Africa
Alla fine degli anni Cinquanta arrivò l’occasione che Goodall aspettava da una vita: nel 1957 l’archeologo e paleontologo britannico Louis Leakey cercava un’assistente per una spedizione nel Parco nazionale di Gombe Stream, in Tanzania. Il suo obiettivo, in particolare, era quello di far luce sul percorso evolutivo della nostra specie, attraverso lo studio del comportamento degli scimpanzé (Pan troglodytes) nel loro habitat naturale.
Lo studioso britannico era alla ricerca di una persona al di fuori del mondo accademico (Goodall non era laureata), con la mente sgombra da teorie scientifiche e pressioni accademiche, che potesse quindi adottare un approccio di studio non ortodosso. “Leakey mi ha offerto l’opportunità di studiare gli scimpanzé come nessuno aveva mai fatto prima. Era destino”.
Il 14 luglio 1960, all’età di 26 anni, Jane Goodall arriva a Gombe, un’area situata sulle rive del lago Tanganica, al confine occidentale della Tanzania con il Congo, armata solo di un taccuino, un binocolo e della sua passione per la fauna selvatica. Iniziò così quello che è tutt’ora il più lungo studio mai condotto sugli scimpanzé selvatici, contribuendo a rivoluzionare l’approccio allo studio sui primati.
Diventare amica degli scimpanzé
Il primo approccio fu scoraggiante, la studiosa faticava a individuare gli scimpanzé, nel fitto della foresta pluviale, e quando li trovava questi scappavano, impedendole di avvicinarsi. Ma non si scoraggiò. Voleva essere accettata dagli scimpanzé, anzi, di più, voleva diventare loro amica. “Volevo muovermi tra gli animali come Tarzan, senza paura”.
Adottando ogni giorno la stessa routine, e recandosi sempre nello stesso punto, dopo circa tre mesi i primati si abituarono alla sua presenza, contribuendo così a trasformare per sempre la nostra comprensione di questi animali, che mai prima d’ora erano stati osservati così da vicino.
Humans and chimpanzees share many similarities, but there's still so much we can learn from them!
*Dr. Goodall and the Jane Goodall Institute do not endorse handling or close proximity to wildlife. Part of the clip below reflects a historical context.* https://t.co/0pwywP6Kpj
— Dr. Jane Goodall & the Jane Goodall Institute (@JaneGoodallInst) November 15, 2023
Il periodo delle scoperte
Jane Goodall iniziò così a studiare gli scimpanzé in un modo che andò di traverso a non pochi accademici dell’epoca: non come un osservatore distante e distaccato, bensì immergendosi nel loro ambiente e nelle loro vite per sperimentare la loro complessa società, da loro pari, arrivando a comprenderli non solo come specie, ma anche come individui, ognuno con la propria peculiare personalità. Tra i numerosi tabù che infranse ci fu quello di dare dei nomi propri agli animali che studiava (come David Barbagrigia, Flint, Goliath, Passion, Frodo e Fifi). Fu chiaramente tacciata di antropomorfismo. “Molte persone si sono opposte, in modo piuttosto spiacevole, al fatto che dessi nomi agli scimpanzé o che suggerissi che avessero personalità e sentimenti, ricorda Goodall. Non mi importava. Non puoi condividere la tua vita con un cane, come avevo fatto a Bournemouth, o con un gatto, e non sapere perfettamente che gli animali hanno una propria personalità e provano emozioni e sentimenti”.
Ridefinire cosa è un uomo
Vivendo tra le scimmie, la studiosa inglese osservò che avevano numerosi comportamenti ritenuti fino ad allora prerogativa esclusiva della nostra specie, a partire dalla complessa vita affettiva e sociale, fino alla capacità di ragionare e risolvere problemi. Ma fu osservando quello che poi chiamo David Barbagrigia, un maschio di alto rango della comunità degli scimpanzé, che Goodall fece quella che viene ritenuta una delle principali scoperte scientifiche del Ventesimo secolo.
Camminando nella foresta, la giovane vide un giorno un grande scimpanzé maschio curvo su un termitaio. Con grande stupore, vide l’animale mentre sceglieva con cura un ramoscello, lo piegava, lo ripuliva delle foglie e, infine, lo infilava nel nido, per poi godersi il banchetto di termiti. Così Goodall scoprì che anche gli scimpanzé sono in grado di costruire e utilizzare strumenti. “Era difficile per me crederci – ricorda. – A quel tempo si pensava che solo gli esseri umani, costruissero e usassero strumenti. Eppure, avevo appena visto uno scimpanzé usare uno strumento”. Leakey commentò la scoperta con una frase altisonante, ma non distante dalla realtà, che passerà alla storia. “Ora dobbiamo ridefinire cosa è uno strumento, cosa è un uomo, o accettare che anche gli scimpanzé siano umani”.
Umano, troppo umano
Gli scimpanzé sono la specie evolutivamente più vicina a noi, con cui abbiamo avuto un antenato in comune, circa 6-7 milioni di anni fa, e con cui condividiamo oltre il 98 per cento del nostro patrimonio genetico.
Le scoperte di Goodall hanno contribuito a mettere in discussione l’unicità dell’essere umano. La studiosa ha infatti osservato tra i primati la violenza, la guerra e l’assassinio, dimostrando che anch’essi, tanto quanto l’uomo, sono capaci di atti brutali. Ha inoltre scoperto che gli scimpanzé sono onnivori, e non esclusivamente vegetariani, e che possono creare strumenti per cacciare. I nostri “cugini” non condividono con noi però solo aspetti negativi: si scoprì che anche gli scimpanzé si abbracciano e si baciano, vivono l’adolescenza, sviluppano forti legami madre-figlio, trasmettono la propria cultura alla prole e sono in grado di usare imbrogli e macchinazioni per ottenere ciò che vogliono.
Il mastodontico lavoro di Goodall, che raccolse dati su più generazioni di scimpanzé, ha fornito un contributo inestimabile tanto alla primatologia quanto all’antropologia, suggerendo che molti dei nostri comportamenti, un tempo ritenuti esclusivamente umani, potrebbero essere stati ereditati dagli antenati comuni che l’Homo sapiens ha condiviso con gli scimpanzé sei milioni di anni fa.
Un messaggio di speranza
Jane Goodall oggi è un’instancabile attivista ambientale e viaggia per il mondo tenendo conferenze, diffondendo il suo messaggio di speranza e chiedendo azione, parlando con funzionari governativi e uomini d’affari di tutto il mondo incoraggiandoli a sostenere la conservazione della fauna selvatica e a proteggere gli habitat.
Goodall ha sviluppato la sua coscienza ecologista nel 1986, dopo aver partecipato a una conferenza sulla primatologia, nel corso della quale tutti i relatori menzionavano la deforestazione nei loro siti di studio in tutto il mondo. Realizzò davvero quanto fosse grave la situazione all’inizio degli anni Novanta, volando sopra il “suo” parco di Gombe a bordo di un piccolo aereo: rimase scioccata nel vedere la deforestazione su larga scala e l’espansione delle aree urbane. Jane capì che doveva agire per proteggere la foresta e preservare l’habitat degli scimpanzé.
Nel 1977 ha fondato il Jane Goodall institute, un’organizzazione di conservazione globale e nel 1991 ha avviato il programma Roots & Shoots, che incoraggia i giovani di tutto il mondo a essere agenti di cambiamento partecipando a progetti che proteggono l’ambiente, la fauna selvatica o le loro comunità.
Ha inoltre contribuito attivamente a migliorare le condizioni degli scimpanzé detenuti nelle strutture di ricerca medica e ha istituito diversi rifugi per gli scimpanzé liberati da queste strutture o per quelli rimasti orfani a causa del commercio di carne selvatica.
Oggi gli amati scimpanzé di Jane sono in pericolo e le popolazioni di tutta l’Africa stanno vivendo un drammatico declino a causa della perdita di habitat. Cento anni fa erano due milioni, oggi ce ne sono meno di duecento mila. Molte popolazioni sono ora sull’orlo dell’estinzione, rischiando di portare con loro nell’oblio le loro peculiari culture, poiché la conoscenza che questi animali si tramandano di generazione in generazione varia da un luogo all’altro.
Ma Jane Goodall non si fermerà, continuerà a lottare con gentilezza, come ha sempre fatto, per proteggere gli scimpanzé (e gli esseri umani), fedele al suo sogno di bambina, di vivere tra gli animali e di essere loro amica. “Alla fine, penso ancora che possiamo farcela, ha affermato. Ovunque vada ci sono giovani con gli occhi lucidi che vogliono dire alla dottoressa Jane cosa stanno facendo per rendere il mondo migliore. Bisogna avere speranza.”
Un pomeriggio di confronto sui temi della biodiversità in occasione della presentazione del primo Bilancio di sostenibilità territoriale della Sardegna.
Diversi studi hanno rivalutato, nel corso degli anni, il valore delle vespe per la salute umana, grazie al loro contributo per un’agricoltura meno chimica.