Il Giappone è conosciuto per la sua cultura millenaria ma anche per essere soggetto a calamità naturali. Dall’incontro di queste circostanze sono emersi concetti di resilienza che influenzano ogni aspetto della vita.
Jonathan Safran Foer. Possiamo salvare il mondo prima di cena? Forse no
Lo scrittore Jonathan Safran Foer ha partecipato al Festivaletteratura di Mantova con il suo ultimo saggio sull’emergenza climatica ‘Possiamo salvare il mondo prima di cena’. L’intervista.
Campi, fattorie, la luce tiepida di inizio settembre. Dal treno regionale che porta da Milano a Mantova, scorrono i tipici paesaggi lombardi. Non c’è nebbia, anzi. Il temporale notturno ha schiarito il cielo e illuminato i terreni. Tra poche ore, al Festivaletteratura, parleremo con Jonathan Safran Foer del suo saggio dedicato all’emergenza climatica. Nell’edizione italiana Guanda, il titolo Possiamo salvare il mondo prima di cena è scritto su una mela, che rappresenta la Terra, morsicata da ambo i lati.
Viene spontaneo, però, associarla a New York, la città dove lo scrittore vive ed è letteralmente un divo, dopo il successo ottenuto ancora ventenne con i romanzi Ogni cosa è illuminata e Molto forte, incredibilmente vicino. Nato nel 1977, Jonathan Safran Foer è cresciuto nella capitale Washington in una famiglia di origine ebraica, la stessa che ha ispirato il suo primo bestseller, composta da due fratelli, un direttore di giornale e un letterato più giovane. Suo padre Albert è presidente dell’American antitrust institute e la madre Esther, pr, ha fondato l’agenzia Fm Strategic communication.
Là fuori, nella pianura padana, c’è un esempio di “big farm”, la grande fattoria in cui è stato trasformato il nostro mondo. Un tema caro a Safran Foer, che nel 2009 ha scritto il saggio Eating animals (mangiare animali), da cui è stato tratto anche un documentario con la voce narrante dell’amica Natalie Portman.
Il nostro treno ora sta passando accanto a una distesa di allevamenti intensivi che – come riportato dallo scrittore – sono fra le prime cause dell’emissione di CO2, quindi dei cambiamenti climatici. Ma non le uniche. Ad aumentare la concentrazione di gas serra in atmosfera, e quindi a contribuire all’aumento della temperatura media globale, ci sono anche i combustibili fossili, bruciati per produrre energia (32,6 per cento), e per muovere i nostri mezzi di trasporto (14,2 per cento).
Nel suo ultimo libro, Safran Foer torna su ciò che conosce meglio, ma trascura molti aspetti dell’intera questione ambientale. Sostiene che siamo in ritardo nell’affrontare l’emergenza climatica perché “è un argomento noioso” e “raccontato male dagli scienziati“. Non considera, però, che il ruolo degli studiosi non è quello di affascinare le masse e, soprattutto, non si sofferma abbastanza sui negazionisti, che per decenni sono stati assoldati dalle multinazionali del petrolio e del gas, e dai governi con il compito di nascondere la verità.
Nell’intervista che segue, Safran Foer afferma che l’informazione non basta a convincere le persone ad assumere uno stile di vita più sostenibile, ma sembra ignorare le storie e le battaglie censurate negli ultimi 40 anni. La rivista scientifica Nature riporta che il numero degli ambientalisti uccisi negli ultimi 15 anni è duplicato al punto da raggiungere i numeri delle zone di guerra. E quando elenca le sue quattro ricette di auto-aiuto (seppur condivisibili per un abitante della classe media occidentale) – “avere un’alimentazione a base vegetale, evitare di viaggiare in aereo, vivere senza macchina e fare meno figli” – viene da chiedersi: come si fa da soli, senza una rivoluzione politica ed economica, a evitare l’estinzione precoce dell’umanità?
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Jonathan Safran Foer ci aspetta in un salone di palazzo Andreani, sede della Camera di Commercio mantovana. Fuori diluvia, è tardo pomeriggio, quasi buio. Indossa una camicia rosa sotto una giacca grigia e i consueti occhiali dalla montatura nera. Accenna un sorriso, saluta in modo sbrigativo.
In quale preciso momento ha pensato che l’emergenza climatica non fosse più un argomento noioso da raccontare?
[Sorride, ndr] Continuo a pensare che sia ampiamente noioso. Il dibattito prende strade molto settoriali. Scrivendo il libro, ho raccolto informazioni che mi hanno fatto andare nel panico. Se guardo l’Amazzonia in fiamme, l’uragano in Florida, le foreste che bruciano in California o i rifugiati ambientali in Siria provo paura, rabbia, depressione. Un secondo dopo aver distolto la mia attenzione da tutto questo, però, non mi preoccupo più. Vorrei preoccuparmene…
Ma…
Non penso di aver bisogno di più informazioni, ma di guardare dentro me stesso. È una sfida con me stesso. Posso fare di più. Lo so. La domanda più importante a cui voglio rispondere è: chi sono io, chi sono all’interno della mia famiglia, della mia città, della mia cultura, tra 7 miliardi di altre persone che vivono sul nostro pianeta.
Dunque, si è concentrato su cosa possiamo fare noi individui nel quotidiano. I suoi consigli per ridurre l’impatto negativo sul clima valgono per i cittadini occidentali delle metropoli, come lei, o anche per il cosiddetto “Sud del mondo”?
[Accenna con la testa di aver capito, sospira, ndr] Sì. È molto complicato [riflette per alcuni secondi, ndr].
Credo che ogni volta che troviamo dei motivi perché gli altri non possano cambiare, ci forniamo una scusa per non cambiare noi.
Certamente. Ma non esiste una ricetta universale. Bisogna adattarsi ai contesti…
Faccio un esempio. Se degli individui non hanno accesso alle risorse, dobbiamo impegnarci a risolvere quel problema, ma ciò non significa che io non debba modificare la mia alimentazione. L’anno scorso hanno fatto uno studio secondo cui la dieta a base di vegetali costa 750 dollari meno rispetto a quella a base di carne. Mangiare meno carne rossa, dunque, è meno caro, fa sicuramente meglio alla salute (e non sono io a dirlo) e al pianeta. Certamente, anche la rivista Nature l’ha detto, chi non ha accesso a cibi freschi, per vari motivi, come le cattive condizioni dei terreni, ed è malnutrito, deve mangiare più carne e latticini. Ma noi no, dobbiamo ridurre la carne rossa del 90 per cento e i derivati del latte del 60 per cento.
Lei ce la fa?
Bisogna essere onesti con i propri limiti. Io, per esempio, non sono completamente vegetariano e non riesco a rinunciare a volare. Per venire qui a Mantova ho preso un aereo. E so che volerò ancora con i miei figli nelle tre settimane di vacanze invernali. Di solito, andiamo in Europa, in America del Sud. Non posso rinunciarci. Dopo marzo, però, credo che mi fermerò. Sto facendo del mio meglio.
A questo punto affrontiamo la tesi da cui parte il libro: “Affinché il pubblico ti creda, serve una buona storia“. Secondo Jonathan Safran Foer, i cambiamenti climatici non hanno scosso i cuori delle persone, come altre vicende nel passato. Ricorda, per esempio, la dimenticata Claudette Colvin, una ragazza-madre afroamericana, povera, che rifiutò per prima negli Stati Uniti segregazionisti degli anni ’50 di spostarsi in fondo all’autobus. Il movimento per i diritti civili preferì diffondere la storia dell’attivista Rosa Parks, accaduta nove mesi dopo e costruita ad arte. L’uomo bianco seduto alle sue spalle – nella celebre immagine – è un giornalista con il quale si era accordata.
Greta Thunberg allora è una Claudette di oggi, autentica, ma per fortuna meno sola e con più mezzi?
Greta Thunberg è più simile a Rosa Parks per la sua capacità e possibilità di coinvolgere le persone, che le credono e si preoccupano dell’emergenza climatica. Di solito, non riesco ad ascoltare gli ambientalisti, ma Greta cattura la mia attenzione. È davvero brava a ispirare una risposta emotiva.
Però è vera, dice le cose come stanno, senza filtri…
Certo che è vera! Trovo ridicoli coloro che la contestano. I mass media, per esempio, hanno sempre bisogno di bilanciare, dare spazio a due voci contrarie sullo stesso soggetto. Ma a volte non si può e non si deve. Ognuno deve essere grato alla Thunberg, io lo sono.
Ha visto lo scorso luglio la cerimonia funebre per il ghiacciaio islandese dichiarato “morto”?
[Annuisce, ma non lascia trasparire emozioni. Resta serio, ndr] Sì, l’ho visto.
Questo evento è stato così emozionante da essere guardato da spettatori di tutto il mondo. Forse le questioni ambientali non sono noiose.
Sono questioni difficili, mancano momenti iconici. Ma dobbiamo continuare a provarci. L’obiettivo non sono solo le lacrime e i pugni alzati, ma spingere all’azione.
I dieci minuti di intervista individuale sono finiti. L’indomani attendo lo scrittore alla conferenza stampa collettiva. Arriva con circa 45 minuti di ritardo, ma si giustifica sorridendo: “Mi sono fermato a firmare il maggior numero di autografi che ricordi, qui a Mantova. Significa che l’emergenza climatica comincia a interessare davvero alla gente. Negli Stati Uniti la narrazione è completamente cambiata, persino fra i repubblicani. Sono speranzoso, finalmente stiamo andando tutti nella stessa direzione”.
Allora, non è fuorviante definire “boring” tutta la questione? Lo scrittore indiano Amitav Gosh, nel libro La grande cecità, dice che non è noiosa in sé, ma che l’abbiamo raccontata male.
È quello che volevo dire io.
No, ieri lei ha detto che è in gran parte noiosa. E poi le cronache dimostrano che i momenti “iconici” ci sono stati eccome: dagli attivisti ambientali uccisi alle azioni di Greenpeace. Alcune di queste notizie non sono state riportate in modo adeguato.
Che cosa vuole dire?
Che un sistema più grande di noi abbia censurato, manipolato?
Non sono d’accordo. Ormai, tutti attraverso internet abbiamo accesso all’informazione, ma quest’ultima non è sufficiente a tradursi in azioni concrete. E anche Greenpeace ha fatto degli errori. Per esempio, non si è occupata degli allevamenti intensivi.
L’intervista finisce così. Le addette stampa di Guanda non permettono di fare altre domande, ma per dovere di cronaca è corretto specificare che Greenpeace ha partecipato a varie campagne contro le colture intensive di Ogm, destinate alla produzione di mangimi per animali, e che contro gli allevamenti intensivi ha lanciato nel 2018 la campagna globale “Il pianeta nel piatto”. Inoltre, non proprio tutti nel mondo hanno accesso alle informazioni o sanno selezionarle adeguatamente. Un’altra giornalista chiede a Safran Foer se fare meno figli sia necessario anche in Italia vista la crisi di natalità e lui ammette: “Non ci ho riflettuto in modo approfondito, in verità”.
Immagine di copertina: Jonathan Safran Foer ritratto al Festivaletteratura di Mantova © Francesca Lancini
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