Nel report del VII Index Future Respect tutte le ombre e le luci dei report di sostenibilità. Ma tra i migliori spicca quello realizzato per Pizzoli.
Perché la transizione ecologica deve essere anche giusta
La transizione ecologica porterà a profondi cambiamenti in tutta la società, essenziali per avvicinarci alla neutralità climatica, ma anche per ridurre le disuguaglianze. Per questo dovrà essere giusta per “non lasciare nessuno indietro”.
- La transizione ecologica è un’opportunità unica per rendere il sistema produttivo in linea con gli obiettivi climatici.
- Dall’altro canto rischia di colpire intere fasce della popolazione che nella transizione vedranno il proprio lavoro cambiare o, nel caso peggiore, venire meno.
- Il caso norvegese e le aree d’Italia coinvolte nella Just Transition.
La pandemia e la crisi energetica hanno cambiato le nostre vite e le nostre economie. Molti paesi, tuttavia, hanno visto questa crisi come un’opportunità, accelerando il processo verso la transizione ecologica. “Questa transizione funzionerà per tutti e sarà giusta, oppure non funzionerà affatto”, disse la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen durante il discorso di lancio del Green Deal a dicembre 2019. Un momento fondamentale per la politica economica e sociale dell’Unione europea, un messaggio chiaro a tutti i cittadini europei: tutte le azioni che verranno messe in atto nei prossimi anni per raggiungere la transizione ecologica, dovranno anche essere supportate da investimenti ingenti, politiche inclusive e visioni di lungo termine.
Infatti l’obiettivo di raggiungere la neutralità climatica entro il 2050 da una parte porterà ad un profondo cambiamento dell’intero sistema produttivo, con l’apertura a nuove opportunità economiche, dall’altra però rischia di colpire intere fasce della popolazione che nella transizione vedranno il proprio lavoro cambiare o, nel caso peggiore, venire meno. “Abbiamo l’ambizione di mobilitare 100 miliardi di euro specificamente destinati alle regioni e ai settori più vulnerabili”, sottolineava von der Leyen. È quella che viene definita come Just Transition (o giusta transizione), un meccanismo ideato congiuntamente ai fondi del Next Generation Eu, per far sì che la transizione ecologica sia anche giusta. Il sistema include anche un fondo (Just Transition Fund) pensato principalmente per supportare le regioni e i settori che saranno maggiormente colpiti dalla transizione a causa della loro dipendenza dai combustibili fossili e dai processi industriali ad alta intensità di gas serra.
“Non vogliamo quelle turbine”
Ma la transizione ecologica ed energetica, come tutte le questioni complesse, nasconde delle insidie. È questo il caso di sette grandi parchi eolici che sorgono nell’area di Fosen, in Norvegia, completati nel 2020. Due di questi, Roan e Storheaia, sono stati installati nella stessa area dove i pastori Sami allevano tradizionalmente le proprie renne, causando non pochi impatti all’attività stessa e al benessere degli animali. Il caso è arrivato alla Corte suprema norvegese, che nell’ottobre del 2021 ha stabilito che la costruzione dei parchi eolici in queste aree violava i diritti civili dei popoli indigeni. “La sentenza della Corte suprema ha stabilito che i Sami avrebbero dovuto avere voce in capitolo, e poter far parte del processo decisionale”, racconta a LifeGate Aslak Paltto giornalista di etnia Sami e allevatore di renne. Invece “siamo stati considerati solo dopo la costruzione dell’impianto eolico. Ora vogliamo usino i guadagni per andare a costruire l’impianto da qualche altra parte”.
La storia ha avuto un’eco internazionale, in particolare a fine febbraio di quest’anno, quando anche Greta Thunberg si è unita alla protesta degli indigeni di fronte all’ingresso del ministero dell’Energia norvegese, a Oslo. “Dopo oltre 500 giorni dalla sentenza, abbiamo iniziato a chiedere delle risposte: cosa succederà adesso? Smantelleranno i parchi eolici o no?”, continua Paltto. La richiesta da parte dei rappresentanti degli indigeni Sami infatti è quella di rimuovere le 151 turbine eoliche e di ripristinare il paesaggio a prima dell’installazione.
Un caso che mostra come la transizione ecologica non possa prescindere dalla giustizia climatica e sociale. “Il punto centrale di questa vicenda è il fatto che i Sami avrebbero avuto il diritto di opporsi alla costruzione degli impianti”, prima che ciò avvenisse. “Il governo norvegese li ha costruiti comunque, senza chiederci il permesso”. Ad oggi però non è ancora chiaro cosa accadrà in quell’area.
Cos’è la Just Transition e perché sarà fondamentale per la transizione ecologica
Il caso delle turbine eoliche realizzate senza tenere conto dell’impatto sociale causato alle popolazioni indigene, probabilmente irreversibile, può essere presa come esempio. Ma cos’è la Just transition? In aiuto ci viene la definizione data dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), dove per transizione giusta si intende quel processo che dovrebbe rendere l’economia più verde in modo che sia il più possibile equa e inclusiva per tutti gli interessati, creando opportunità di lavoro dignitose e non lasciando indietro nessuno. Il punto sta proprio qui: la transizione di per sé non ci porterà a un modello economico e di sviluppo diverso se le disuguaglianze sociali rimarranno le stesse che abbiamo in questo momento.
D’altro canto la stessa Ilo afferma come, entro il 2030, più del due per cento delle ore lavorative totali in tutto il mondo potrebbe andare perso ogni anno a causa del cambiamento climatico, o perché farà troppo caldo per lavorare o perché i lavoratori dovranno lavorare a un ritmo più lento. Le temperature più alte e le ondate di calore avranno già di per sé un impatto sulla produzione, per questo motivo contrastare la crisi climatica dovrebbe essere al centro anche delle politiche sociali. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista One Earth, e realizzato da RFF-CMCC European Institute on Economics and the Environment (EIEE), politiche climatiche stringenti porterebbero a 8 milioni di posti di lavoro in più solo nel settore energetico globale entro il 2050, principalmente per gli aumenti nelle industrie del solare e dell’eolico. Insomma, la transizione conviene, sia per contrastare la crisi climatica, sia per dare un impulso positivo all’economia.
Mentre l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) stima che il Pil nelle economie sviluppate ed emergenti dei paesi del G20 potrebbe aumentare fino a quasi il 5 per cento entro metà secolo, grazie proprio alle politiche climatiche. Le stime dell’Ilo invece prevedono una creazione di 24 milioni di posti di lavoro nella generazione di energia pulita, nei veicoli elettrici e nell’efficienza energetica, con una perdita di circa 6 milioni di posti di lavoro: un guadagno netto quindi di 18 milioni.
Just Transition e transizione ecologica in Italia
Il nostro è un paese ad alta intensità carbonica: i settori cosiddetti hard to abate o energy intensive, ovvero quelli dell’acciaio, chimica, ceramica, carta, vetro, cemento e fonderie, contano oltre 700mila posti di lavoro. Senza contare il settore automotive, che conta circa 250mila lavoratori, di cui 168mila nella componentistica e che dovrà fare i conti con la trasformazione già in atto e il passaggio dai motori endotermici a quelli a bassa intensità di carbonio, elettrico e ibrido in primis. Ad oggi sono però due le aree italiane coinvolte dalla Just Transition e dal fondo messo a disposizione dall’Europa: il Sulcis Iglesiente e la provincia di Taranto. Il via libera da parte della Commissione europea è arrivato a dicembre 2022, con una dotazione finanziaria che prevede 1.211.280.657 euro, di cui 1.029.588.558 euro di contributo europeo e 181.692.099 euro di contributo nazionale, denari che dovranno servire a riconvertire le aree interessate dall’estrazione di carbone in Sardegna e nel settore dell’acciaio in Puglia.
L’intera area tarantina è ovviamente fortemente legata all’acciaieria ex Ilva, che impiega circa 10mila dipendenti, con ulteriori 10mila legati all’indotto. Nel 2021 una consultazione pubblica avviata dalla regione per sondare i possibili settori di intervento, aveva raccolto numerose proposte nel campo della rigenerazione e nella decontaminazione dei siti, nel ripristino del terreno e in progetti di conversione ad esempio puntando sulla prevenzione e la riduzione dei rifiuti. Invece per il Sulcis, la direzione sembra essere quella di una conversione del settore estrattivo: dal carbone ad altri minerali più richiesti dal mercato, come nichel e litio, fino alla completa riconversione energetica dell’isola.
Ma come si affrontano le questioni sociali e culturali, non solo quindi economiche, che andranno a ricadere sulle comunità locali una volta che la transizione sarà avviata? A tal proposito il progetto Entrances, ENergy TRANsitions from Coal and carbon: Effects on Societies, finanziato con il programma Horizon 2020, ha cercato di dare una risposta a questi aspetti, studiando e analizzando i casi conosciuti. In particolare per il Sulcis, il caso studio conclude che “così come sta prendendo forma in Sardegna, [la transizione] è caratterizzata da un cambiamento verso un sistema energetico più centralizzato e da una centralizzazione del relativo processo decisionale, da una visione debole e opaca, e da una mancanza di capacità di rispondere ai bisogni sociali e territoriali”. Nonostante gli investimenti delle società coinvolte, ad oggi, “la transizione verso l’energia pulita non sta producendo una nuova visione per il territorio del Sulcis, ma piuttosto sta producendo un effetto di divisione sulla comunità locale, e sta ulteriormente diminuendo l’autonomia del territorio”. Ciononostante, la ricerca ha anche mostrato come “il territorio del Sulcis sia dotato anche di una società civile attiva, di una propensione all’innovazione e di un ricco patrimonio culturale e naturale, le cui potenzialità di fare territorio sono ancora inespresse”.
Evidentemente la questione rimane estremamente complessa: da una parte sappiamo come la transizione ecologica sia un’opportunità unica per ripensare l’intero sistema produttivo, in particolare nelle strategie di mitigazione della crisi climatica. Dall’altro siamo consapevoli che dovrà includere tutti gli attori coinvolti, attraverso una visione di lungo termine e partecipativa, che tenga conto di tutte le fasce della popolazione. Per non lasciare indietro nessuno.
Questo articolo è stato realizzato grazie al supporto dell’Earth Journalism Network
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