Come Kaïs Saïed ha svuotato la democrazia in Tunisia

Il presidente si riconferma con il 90% al termine di elezioni caratterizzate dall’eliminazione in massa degli oppositori. Ma per consolidare il proprio potere Saïed non potrà ignorare la crisi economica del paese, come fatto nei 5 anni precedenti.

Il 90 per cento dei voti ottenuti da Kaïs Saïed sanciscono la roboante quanto scontata vittoria dell’uomo che in appena 5 anni di presidenza ha radicalmente trasformato la democrazia tunisina, divenuta un deserto per le opposizioni e la partecipazione politica. Il tonfo dell’affluenza, che i risultati attestano poco al di sotto del 28 per cento, rappresenta il dato più basso mai raggiunto nel corso di un’elezione presidenziale dalla rivoluzione del 2011, raccontando al contempo del definitivo scollamento tra un elettorato sempre più attanagliato dalle emergenze sociali ed economiche e il presidente. La perdita di fiducia nelle istituzioni e la conseguente scarsa legittimazione popolare del voto non sembrano tuttavia impensierire Saïed – che pure era entrato in politica grazie al forte sostegno dei cittadini – e anzi sembrano spingerlo nella medesima direzione in cui ha avviato il paese negli ultimi anni. L’orizzonte che si pone di fronte alla Tunisia all’indomani del voto è resta infatti dominato dalla grande instabilità economica, lo smantellamento sistematico delle opposizioni, l’estensione dell’influenza governativa sull’appartato giudiziario e la manipolazione della tragedia delle migrazioni a proprio vantaggio.

La rimozione politica di Ayachi Zammel 

Saïed ha vinto senza avversari. Gli unici due che hanno potuto candidarsi non sono infatti mai stati una reale minaccia alla rielezione del presidente: Zouhair Maghzaoui, Segretario generale del Movimento del Popolo e di idee progressiste, è di fatto un sostenitore di Saïed. L’altro candidato sarebbe dovuto essere Ayachi Zammel, ex deputato liberale e suo oppositore. Oltre ad essere praticamente scomparso nelle caselle disegnate sui muri su cui vengono affissi i volti dei candidati durante la campagna elettorale, Zammel si è trovato ad affrontare una serie di ostacoli che l’hanno reso, di fatto, invisibile all’elettorato. Il tentativo di “rimozione” di Zammel è divenuto sostanziale con la sua incarcerazione il 3 settembre scorso, nel momento in cui la campagna elettorale è arrivata nella fase più decisiva. Zammel è stato condannato a 13 anni e otto mesi per frode, con l’accusa di aver falsificato i documenti necessari a completare l’iter per la candidatura, lo stesso che Saïed ha completamente riformato con l’approvazione della nuova Costituzione del paese nel 2022, che quasi tutta l’opposizione non riconosce: “Il tribunale di prima istanza di Tunisi 2 ha condannato Zammel a 12 anni di prigione per quattro diversi casi legati alla raccolta delle firme per la sua candidatura, e gli ha vietato di votare”, aveva affermato l’avvocato di Zammel subito dopo la sentenza, il suo avvocato. Il suo assistito ha condannato la decisione della magistratura tunisina definendola “politicamente motivata”.

La deriva autoritaria della democrazia in Tunisia

L’eliminazione politica di Zammel non è di certo un caso isolato, ma confluisce in un progetto di progressivo svuotamento della democrazia iniziato da Saïed poco dopo la sua elezione nel 2019 e rafforzato soprattutto con il colpo di stato del 2021, a seguito del quale l’attuale presidente ha sospeso il parlamento, sciolto il governo, ridimensionato il Consiglio superiore della magistratura – massimo organo giudiziario del paese – e neutralizzato tutti i suoi principali oppositori politici. Tra questi ci sono soprattutto Abir Moussi, leader popolare a capo del Partito desturiano libero, e l’ex primo ministro Ahmed Hachani. Con l’entrata in vigore della Costituzione del 2022, le elezioni tunisine sono di fatto regolate dallAlta autorità indipendente per le elezioni, una commissione elettorale apparentemente indipendente che in molti considerano espressione diretta del volere del presidente. La commissione ha dichiarato “non idonei” 14 dei 17 candidati che hanno presentato domanda per partecipare alle elezioni di domenica. Una legge approvata dal governo ha poi impedito che venissero fatti ricorsi contro tale decisione, esautorando di fatto i tribunali amministrativi e ponendo fine all’imparzialità nel processo di controllo dei requisiti per le candidature politiche. Inoltre, la nuova  Costituzione ha previsto condizioni molto stringenti per rendere valida la candidatura di un cittadino alle presidenziali, e cioè la necessità di 10.000 firme da parte di altrettanti elettori e a dieci firme di parlamentari o quaranta di rappresentanti eletti sul territorio.

L’effetto di Saïed sull’economia della Tunisia

Nel 2019 Saïed è stato eletto con il 73 per cento di voti, imponendosi come una figura nuova, sino ad allora esterna alla politica, e capace di risollevare il paese dalla corruzione e dalla crisi economica. Cinque anni più tardi, mentre si azzerano i dubbi sulla possibilità di un suo secondo mandato, il presidente si trova ad affrontare un pubblico sempre più ostile e impaziente nei confronti dell’incapacità del governo di affrontare le numerose sfide economiche del paese. Guardando ai dati si nota che la percezione dell’elettorato coincide con il reale andamento economico di Tunisi.

Secondo un sondaggio di Arab Barometer, che si occupa di formare e comunicare l’opinione pubblica dei paesi arabi, circa il 40 per cento dei tunisini considera l’economia tema cruciale per il futuro del paese. E se l’85 per cento della popolazione definisce la politica economica nazionale pessima, va da sé che questo giudizio ha un riverbero anche sulla popolarità del presidente. Gli stessi indicatori economici forniscono un verdetto negativo sull’operato di Saïed. Nel 2019 la disoccupazione era poco più del 17 per cento, e sebbene oggi si attesti al 16 per cento, risulta in aumento rispetto al 2022. La crescita prevista del Pil per il 2024 è ferma all’1,9 per cento, pochi punti percentuale al di sopra dell’1,6 per cento nel 2019. A pesare sulle spalle dei tunisini è soprattutto l’inflazione, cresciuta dall’7,1 per cento all’8,5 per cento del 2023.

Se sul piano delle politiche economiche la presidenza Saïed ha potuto “beneficiare” di due grossi shock globali avvenuti uno dopo l’altro – la pandemia da COVID-19 e l’invasione russa dell’Ucraina – a cui il presidente ha imputato gran parte dell’inefficacia della propria ricetta economica, con il passare del tempo questo alibi si è consumato. La Tunisia di Saïed, ex giurista esperienza economica e con pochi consulenti esperti, non è riuscita a intraprendere le riforme necessarie per guidare il paese fuori dalla recessione, senza affrontare la questione dei sussidi, l’alta spesa per gli stipendi del settore pubblico, l’economia informale e la necessità di maggiori interventi di politica sociale per affrontare la povertà. Su questo ha pesato anche il rapporto a volte difficile con la più grande organizzazione sindacale del paese, l’Union générale tunisienne du travail (Ugtt), un’istituzione che esiste da ben prima della transizione democratica di Tunisi. Inoltre, il venire meno della Russia e dell’Ucraina per quanto riguarda le importazioni di grano e carburante ha finito con il mettere sotto pressione le riserve del paese, lasciandolo senza fondi sufficienti per acquistare beni di prima necessità come farina, zucchero. A questo si è aggiunta la contrazione della produzione del settore agricolo a causa di una gravissima siccità e di altri impatti del cambiamento climatico. Nonostante Saïed abbia sempre scaricato la colpa dei risultati economici del paese sulle crisi internazionali, il mese scorso migliaia di tunisini sono scesi in piazza per protestare. E sono proprio e sfide economiche, ancor più che quelle politiche e la repressione del dissenso, a infiammare le piazze.

L’arma politica delle migrazioni

Non è difficile capire perché il tema delle migrazioni verso l’Europa sia emerso come uno dei dossier principali sul tavolo di Saïed nel corso del suo primo mandato. Sebbene il numero di persone in partenza dalla Tunisia fosse in aumento sin dalla metà del decennio scorso, l’insediamento del nuovo presidente al governo del paese ha coinciso con un rapido aumento delle partenze. Nel 2020 sono partite dalle coste tunisine circa 14.600 persone, 20.200 nel 2021 e 32.300 nel 2022. Nel 2023, la Tunisia ha ampiamente superato la Libia come punto di partenza per persone provenienti da molte parti dell’Africa in fuga, per esempio, dall’inisucrezza di aree come il Sahel e l’Africa occidentale. Si stima che in quell’anno dalle coste tunisine siano partite il 62 per cento delle traversate marittime – corrispondenti a 97.667 persone – a fronte del 33 per cento provenienti dallo stato confinante. Un altro fattore che ha contribuito all’aumento delle partenze  è stato sicuramente l’esplodere del disagio sociale interno, nutrito dalle crescenti disuguaglianze che oggi si riversano soprattutto sui giovani tunisini. Molti di loro hanno lasciato il paese sia attraversando il Mediterraneo centrale che percorrendo i Balcani. Secondo alcune stime, circa il 40% dei migranti tunisini ha un’età compresa tra i 15 e i 29 anni. A risentire delle partenze sono state sia le grandi città che le aree rurali del paese che, svuotate dalle giovani generazioni, hanno perso ogni prospettiva di sviluppo futuro.

Ma anziché predisporre ricette politiche per affrontare la questione delle migrazioni, il governo di Saïed ha deciso di utilizzare questa emergenza sia per distogliere l’attenzione della popolazione dal ritardo dell’economia che come strumento di politica estera. Per prima cosa, ha rimestato nel risentimento popolare con dichiarazioni che hanno favorito l’emergere di un sentimento xenofobo nei confronti dei migranti. Nel febbraio 2023, rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza Nazionale, ha chiesto un’azione urgente per fermare il flusso di migranti subsahariani, definito “parte di un complotto per alterare la struttura demografica della Tunisia”. La dichiarazione del presidente ha innescato teorie cospirative – analoghe a quelle della sostituzione etnica fomentate dalla retorica politica nei paesi europei – che hanno stigmatizzato gli africani subsahariani. E dall’emergere di una retorica tanto brutale all’affermarsi della violenza vera e propria il passo è stato breve: si sono moltiplicati gli attacchi violenti contro gli africani subsahariani, con decine di migliaia di persone trasferite in aree isolate come gli uliveti vicino a El Amra, a nord di Sfax o vicino ai confini algerini e libici, dove vengono di fatto abbandonate senza beni di prima necessità.

Ma è l’utilizzo dei flussi migratori al servizio della politica estera il tratto forse più rilevante della prima presidenza targata Saïed. È proprio sulla promessa di una gestione delle migrazioni che la Tunisia ha chiuso importanti e redditizi accordi con i governi europei, preoccupati dal contraccolpo che nuove ondate migratorie avrebbero sull’opinione pubblica e, di conseguenza, sui sondaggi. Su questo piano, la posizione di vantaggio di Tunisi ha permesso a Saïed di ricevere da Bruxelles 105 milioni di euro di finanziamenti per le migrazioni, promessi dall’Unione europea nel 2023 in occasione della firma del Memorandum of Understanding a cui hanno partecipato la presidente della Commissione Ursula von der Leyen e la premier italiana Giorgia Meloni. Una cifra a cui vanno ggiunti 150 milioni di euro di sostegno al bilancio generale, e complessivamente raggiungono una somma significativamente più alta di quelle ottenute dai precedenti governi tunisini. Oltre al beneficio economico, che tuttavia Tunisi ha destinato per intensificare gli sforzi di pattugliamento delle sue acque territoriali, la vittoria più importante per Saïed risiede nell’aver ottenuto legittimità politica dai governi europei, proprio mentre stava operando per spegnere ogni afflato di democrazia in un paese che, a maggior ragione dopo il voto di domenica, appare trasfigurato.

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