Kamala Harris, la patriota che non parla di clima (per ora)

Al termine una convention democratica segnata dall’esigenza di costruire un’alternativa politica e personale a Trump, la vena battagliera di Kamala Harris sul clima sembra essere stata messa in pausa.

Prima di prendere la parola per accettare ufficialmente la candidatura democratica nella corsa alle elezioni presidenziali degli Stati Uniti, Kamala Harris si è posta un obiettivo ben preciso: Quello di convincere gli americani che la sfida per la Casa Bianca inizi soltanto ora, giunti ultimo chilometro della campagna elettorale. Ora, giunti al termine di una convention che aveva l’obiettivo preciso e immancabile di sostituire chirurgicamente la campagna elettorale portata avanti fino ad oggi – al prezzo di sonori scivoloni e tanta stanchezza, da Joe Biden – con quella istantanea dell’attuale vicepresidente, Harris sembra essere riuscita nel suo intento.

Per questo motivo, nel suo discorso di accettazione – durato appena 38 minuti, molto poco rispetto all’ora e mezza di Donald Trump di qualche settimana fa – Harris ha scelto di mettere da parte quasi tutto per raccontare sé stessa. La sua storia personale, quella che parla di una di donna nera, figlia di immigrati e cresciuta nei quartieri della classe media di Oakland, California, è diventata per un attimo la saga familiare della nazione, capace di ridefinire i canoni del patriottismo con il quale un popolo scrive la propria biografia storica, fissando i propri simboli e valori fondativi. Un tema che per troppo tempo i democratici hanno considerato un taboo. Così facendo, lo hanno consegnato nelle mani salde dei conservatori, quando non condannato al vituperio operato della furia fanatica dell’estrema destra americana.

La cura Harris per rivitalizzare i democratici

La necessità di un intervento così profondo per instaurare una comunicazione nuova ed esclusiva tra la Harris candidata presidente e gli elettori, buttandosi alle spalle la Harris vicepresidente – seppur ancora in carica – percepita come un residuato di Joe Biden, ha occupato gran parte del discorso che la 59enne di Oakland ha pronunciato allo United Center di Chicago. Per il resto, tutto ciò che non è stato Kamala è stato due cose: Trump e Gaza.

Nella sfida di comunicazione con l’ex presidente Harris ha già dimostrato di giocarsela ad armi pari, rispondendo colpo su colpo. La replica più recente è la lezione di spelling sulla pronuncia di “Kamala” fatta delle sue nipoti e diretta proprio a Trump, che tempo fa aveva mostrato qualche esitazione, ha fatto il paio con il “weird” – letteralmente, “strambi” – appioppato dal candidato vicepresidente Tim Walz al tycoon e al suo diretto sfidante, J.D. Vence, per ridicolizzare e sminuire il machismo ostentato della leadership conservatrice.

Su Gaza, Kamala Harris non si discosta dalla linea di Biden

Ma su Israele e la Palestina Kamala Harris rimane, per forza di cose, ancora saldamente legata alla linea dell’attuale amministrazione, ribadendo che “il presidente ed io stiamo lavorando giorno e notte per arrivare ora alla liberazione degli ostaggi e al cessate il fuoco. Voglio essere chiara: difenderò sempre il diritto di Israele di esistere e mi assicurerò che Israele abbia la capacità di difendersi. Perché quel popolo non debba mai più affrontare l’orrore che Hamas ha causato il 7 ottobre, le violenze sessuali indicibili, il massacro dei giovani che erano andati a vedere un festival”.

A queste parole Harris ha aggiunto la volontà di realizzare alcune delle istanze della causa palestinese dopo aver fermate le atrocità in corso a Gaza: “La dimensione della sofferenza è lancinante. Vogliamo che questa guerra finisca. Che Israele sia sicuro. Che gli ostaggi vengano liberati. Che le sofferenze a Gaza finiscano. Che il popolo palestinese realizzi il suo diritto alla libertà, alla sicurezza e all’autodeterminazione”. Tuttavia, la scelta di non far salire sul palco nessun esponente dei palestinesi negli Stati Uniti – a differenza dei genitori di Hersh Goldberg-Polin, 23enne americano-israeliano rapito da Hamas – ridimensiona e di molto le sue parole, continuando a mantenere le posizioni su piani distinti e distanti, come evidenzia la crisi profonda dei negoziati in Medio Oriente.

I colloqui per un cessate il fuoco nella Striscia di Gaza – che si tengono al Cairo, in Egitto, che ne è parte insieme a Israele, i rappresentanti di Hamas e gli Stati Unti –  sono da poco ripresi e dovrebbero continuare per tutto il fine settimana. Ma è sentimento diffuso e probabilmente radicato nella realtà che un accordo non sia raggiungibile nel breve periodo. Ai numerosi scogli che ostacolano le trattative da mesi, si è aggiunta ora la disputa sul cosiddetto “corridoio Philadelphi”, la linea di confine tra il sud della Striscia di Gaza e l’Egitto. Qui Israele – soprattutto il primo ministro Benjamin Netanyahu e i suoi fedelissimi – non sembrano ascoltare ragioni e intendono mantenere una presenza militare fissa, cosa che l’Egitto considera una potenziale minaccia ai suoi territori nonché una violazione dell’accordo di Camp David del 1978, con cui il Cairo riconobbe lo Stato di Israele.

Ma è anche la gestione interna del capitolo su Gaza che rischia di rappresentare un grosso nervo scoperto per Harris. La prova è divenuta lampante proprio durante la convention, quando il gruppo Muslim Women for Harris ha rilasciato una dichiarazione in cui annunciava il suo scioglimento in risposta alla mancata presenza di un rappresentante palestinese sul palco principale dell’evento. Nonostante le proteste in giro per le strade tanto annunciate dai movimenti per i cessate il fuoco siano state meno partecipate e tese del previsto, la permanenza di Harris sulla linea tenuta sino ad ora dall’amministrazione potrebbe costarle qualche voto, soprattutto in Stati in bilico come il Michigan.

Molto poco, per ora, sul clima

Molti osservatori hanno sottolineato la Harris patriottica emersa dalla convention democratica. Il tentativo, come detto, era quello di proporre una narrazione identitaria intrisa di valori democratici, che include questioni come i diritti civili e quelli delle seconde generazioni non come eccezioni, ma come parte integrante dell’essenza americana. Ma in questa rielaborazione del significato di patriottismo, il tema del clima è rimasto escluso. A parlarne, sul palco, è stata Deb Haaland, segretaria agli Interni dell’amministrazione Biden, che ha parlato dell’operato della vicepresidente in difesa del clima come procuratrice generale e vicepresidente. Nulla nel discorso di accettazione.

Secondo alcuni analisti, la scelta di non parlare di piani di riduzione delle emissioni sarebbe dettata anche in questo caso dall’esigenza di non fare passi falsi con l’elettorato moderato degli Stati contesi, che saranno decisivi a novembre. Resta dunque da capire se, quando e come, Harris deciderà di rendere anche la lotta ai cambiamenti climatici parte del suo, rielaborato, patriottismo.

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