Editoriale

Quella volta che Kamala fermò Barack

Dopo la scelta di Joe Biden di passare il testimone a Kamala Harris, si apre un nuovo capitolo della storia degli Stati Uniti d’America. Da scrivere in soli 100 giorni.

Per chi non se ne fosse accorto, il presidente degli Stati Uniti d’America, Joe Biden, ha infine deciso di rinunciare a proseguire la corsa per un secondo mandato alla Casa Bianca. La decisione è stata presa in un momento di difficoltà fisica e di forte pressione. Ma alla fine, come spesso accade, è stato il corpo a dirgli che era giunto il momento di fermarsi, di accontentarsi di ciò che ha fatto e potrà ancora fare per il suo popolo nei prossimi sei mesi – quelli che mancano alla fine del mandato – senza tirare ulteriormente la corda.

Biden, infatti, nei giorni scorsi ha dovuto sospendere la campagna elettorale a causa del Covid. L’occasione giusta per pensare a cosa fosse meglio per sé, per il futuro degli Stati Uniti e di gran parte del mondo, volente o nolente.

Metano
Joe Biden alla Cop26 di Glasgow © Yves Herman – WPA Pool/Getty Images

La maggior parte degli analisti ha definito saggia questa scelta. La scelta che l’ha iscritto nell’albo dei più grandi presidenti della storia recente “pur servendo il paese per un solo mandato”. E vi chiedo di non fare mie queste parole perché so che in molti avrebbero da ridire considerando la gestione della crisi climatica e della situazione catastrofica della Striscia di Gaza.

“Facendosi da parte, Biden ha fatto la cosa più importante che potesse fare a questo punto per mettere gli Stati Uniti al riparo da Trump”, ha risposto così Timothy Naftali, giornalista e storico che collabora con l’”Institute for global politics” presso la Columbia University, nel corso di un’intervista rilasciata alla rivista Foreign Affairs. Una risposta a una domanda che aveva come scopo quello di provare a capire cosa fosse possibile fare per evitare di ritrovarsi in una condizione simile a quella del 2016 quando gran parte delle conquiste ottenute faticosamente dall’allora presidente Barack Obama vennero spazzate via con la vittoria di Donald Trump. Cancellate una a una per via della doppia maggioranza – sia alla Camera che al Senato – ottenuta dal Partito repubblicano.

Questa volta, invece, se fosse che la decisione di Biden, pur non ostacolando il ritorno di Trump alla Casa Bianca, impedisse ai repubblicani di conquistare anche solo una delle due camere, allora si potrebbe dire che è stata la scelta migliore. Già perché solo così ci sarebbe un contrappeso allo strapotere del presidente in grado di mettere in sicurezza, o in salvo, alcune delle decisioni di politica estera. Anche in questo caso, è molto soggettivo valutare l’operato di Biden nella gestione, ad esempio, della guerra in Ucraina, ma è molto probabile che una vittoria totale (presidenza più Congresso) di Trump spianerebbe la strada per la cessione di gran parte dei territori ucraini occupati alla Russia.

In ogni caso, quello che va sottolineato, è che perdere o rinunciare a un secondo mandato non significa essere un “cattivo presidente”. Lo sostiene Naftali nel corso della stessa intervista, comprendendo la situazione psicologica vissuta da Biden e paragonandola a quella di Bush padre: “Era estremamente qualificato e ha avuto gli strumenti giusti per gestire la fine della Guerra fredda così come i primi anni che seguirono. Tuttavia, non voleva essere ricordato come un presidente da un solo mandato. Così, quando fu sconfitto nel 1992, lasciò l’incarico in piena depressione, come se in qualche modo avesse fallito come presidente, nonostante il suo unico mandato fosse stato, in realtà, importante e significativo”. Naftali conclude sperando che il tempo possa aiutare anche Biden a rendersi conto di quanto di buono abbia fatto per il suo paese.

Bene, ora però è il momento di guardare avanti. Come molti di voi sanno, tra le persone più quotate per prendere il posto di Biden nella corsa alla Casa Bianca c’è la sua vice: Kamala Harris. Sulla sua figura, la sua esperienza, la sua storia vi lascio due articoli. Uno realizzato da Mara Budgen ai tempi della vittoria del 2020 e l’altro da Luigi Mastrodonato il giorno dopo la decisione di Biden. Ciò su cui vorrei soffermarmi qui, ora è cercare di capire perché buona parte del mondo climatico nutre speranza dall’ipotesi che che Harris possa vincere le elezioni del 5 novembre. A venirci in aiuto, in questo caso, è un aneddoto riportato da Emily Atkin, autrice della newsletter Heated.

Atkin ricorda di quella volta, nel 2016, quando – da procuratrice generale dello stato della California – riuscì a bloccare un piano per la trivellazione della costa del Pacifico alla ricerca di combustibili fossili, attraverso la controversa tecnica del fracking. Un piano che all’epoca era stato avallato nientepopodimeno che da Barack Obama. Una scelta che per Obama era giustificata dal considerare il fracking come una tecnica di transizione tra la vecchia industria fossile e le rinnovabili. Una considerazione che per Harris era arbitraria, discrezionale e contraria alle leggi ambientali: “Dobbiamo adottare tutte le misure possibili per proteggere la nostra preziosissima costa e il nostro oceano”.

Quattro anni dopo, da senatrice, Kamala Harris avanzava, insieme alla deputata Alexandria Ocasio-Cortez, una proposta di legge per porre la giustizia climatica e la lotta contro le disuguaglianze sociali al centro delle politiche ambientali statunitensi. Tutti presupposti che spingono a sperare che Harris possa essere ancor più convinta e decisa di Biden nel portare avanti la lotta contro la crisi climatica. Del resto, anche se Biden si è mostrato un sostenitore dello sviluppo delle fonti rinnovabili, non si è mostrato altrettanto convinto della necessità di abbandonare, contestualmente, i combustibili fossili. Non è un caso, infatti, se l’estrazione di petrolio negli Stati Uniti ha raggiunto oggi il suo picco facendone il maggior produttore di greggio al mondo. Stiamo parlando di quasi 14 milioni di barili al giorno, molti di più persino dell’Arabia Saudita.

Quello che è certo è che Kamala Harris, in caso diventasse la nuova candidata democratica, dovrà impegnarsi parecchio per convincere tutte le persone che oggi non si sentono rappresentate da Trump, ma nemmeno da Biden. E non sarà facile perché per quattro anni ha dovuto condividere molte decisioni controverse, rimanendo pressoché nell’ombra. Lasciando il suo potenziale inespresso. O forse custodito. In attesa che arrivasse il momento giusto. E per Harris il momento è ora. Questo è il tempo di convincere le minoranze, le persone costrette ai margini della società. Quelle che in questi anni hanno lottato e chiesto a gran voce di porre fine alle guerre che hanno causato milioni di morti in pochissimo tempo. Quelle che hanno lottato contro la crisi climatica che ha sconvolto interi territori. Proprio come fa una guerra, ma su scala globale.

Harris ha poco più di cento giorni per riuscire in quest’impresa, ce la farà?

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