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Khalab, produttore. La musica tuareg si evolve con la sintesi elettronica
Intervista a Raffaele Costantino sul nuovo progetto Khalab & M’berra, l’album registrato in un campo profughi della Mauritania insieme a musicisti del Mali e tuareg.
Raffaele Costantino, in arte Khalab, è un vulcano di idee, iniziative e produzioni musicali. Agitatore culturale, dj e divulgatore onnivoro di suoni e contaminazioni dal mondo su Rai Radio 2, in passato anche ai microfoni di LifeGate, Costantino nel 2017 è stato invitato dalla ong Intersos a visitare il campo profughi di M’berra in Mauritania, al confine con il nord del Mali, e conoscere la vasta comunità di musicisti tuareg e maliani che lo popolano. Ma quella che doveva essere solo un’esperienza diretta da raccontare in radio, si è presto rivelata molto di più. Si è trasformata in una serie di registrazioni di suoni e voci da portare con sé e finalizzare nel suo studio di Roma. Così è nato il progetto e album Khalab & M’berra, in uscita il 23 aprile sull’etichetta Real World di Peter Gabriel e corredato dagli scatti del fotoreporter francese Jean-Marc Caimi.
La musica elettronica di Khalab sembra così distante, così aliena! Allo stesso tempo, mentre ascolto e riascolto, sento che è ben armonizzata con le nostre voci, le nostre canzoni, i nostri strumenti. Sono fortemente convinta del potere di innovazione dell’individuo. La combinazione di generi musicali manterrà viva la nostra tradizione.
Khalab, un esploratore di suoni dalla Calabria al Maghreb
E in effetti, dopo uno split con il griot – poeta e cantore che tramanda la tradizione orale – maliano Baba Sissoko e l’acclamato Black noise 2084, con questo nuovo lavoro l’artista di origine calabrese conferma la sua capacità di sintesi elettronica dei linguaggi musicali africani (da qui l’alias Khalab, ponte ideale tra la Calabria e il Maghreb), reinterpretando con originalità e rispetto il desert blues. Un genere sempre più apprezzato, fatto di chitarre elettriche, strumenti tradizionali come il tehardent (simile al violino) e l’imzad (chitarra a una sola corda) spesso realizzati con materiali e componenti meccanici di fortuna, quali fili di frizione e freni per le corde o batterie d’auto per alimentare gli amplificatori. Abbiamo parlato con Khalab dei suoi incontri con gli artisti confinati a M’berra, di musica tuareg, appartenenza, appropriazione culturale, afrofuturismo e ibridazione.
Come nasce Khalab & M’berra?
L’idea è partita dal capo comunicazione di Intersos, con cui collaboro come consulente musicale e testimonial per campagne di sensibilizzazione. Nelle emergenze umanitarie non si occupano solo di necessità primarie, ma anche di quelle identitarie, culturali e umanistiche. Oltre a prestare soccorso all’interno di M’berra, campo profughi che ospita 50mila persone nelle tende, hanno costruito una struttura in cemento che funge da centro culturale, un ritrovo per scambiare idee, culture e tradizioni, e per suonare in sicurezza. In realtà, all’inizio mi avevano invitato solo per raccontare questo progetto con la mia sensibilità da divulgatore, prima ancora che da artista.
E poi?
Una volta lì, ho conosciuto i musicisti, ne ho apprezzato il valore e ho realizzato di avere tra le mani parecchio materiale da registrare e rielaborare. L’idea di farne un album è arrivata in un momento successivo. Il bello è che a M’berra si è creata una vera e propria scena musicale, come in ogni luogo dove vivono tante persone. Nel campo ci sono diversi musicisti e ognuno ha formato una sua band. Io li ho riuniti tutti in un unico collettivo, M’berra ensemble, anche se questo macro-gruppo ufficialmente non esiste.
Tra gli artisti del campo profughi ce ne sono alcuni di fama internazionale.
Non c’è da stupirsi. Noi abbiamo i gruppi musicali che si formano a scuola o al college. Loro formano le band nei campi profughi in Algeria, Niger, Mauritania, Burkina Faso. Molti musicisti provengono dal Mali e dalla capitale Bamako, dove si erano trasferiti già ai tempi della guerra civile. La scena musicale di M’berra è stata iniziata da Fadimata Walet Oumar, meglio nota come Disco, una delle grandi rappresentanti della musica tuareg, che proprio in quel luogo ha dato vita al progetto Tartit. Quando sono arrivato sul posto, Disco si trovava a Bamako ma, tramite l’etnologa romana Barbara Fiore, sono riuscito a contattarla. La prima volta che ha ascoltato la mia musica, pensava fosse totalmente estranea al suo mondo. Ci è entrata dentro pian piano, si è resa conto che il modo migliore di preservare le proprie tradizioni è attraverso la contaminazione con altri linguaggi, e per superare l’usura del tempo non bisogna tenerle pure.
Come hai vissuto la convivenza tra etnie diverse, arabe e tuareg?
Sono andato a M’berra con intenti artistici, non politici o cronistici. Loro stessi cercano un megafono solo per diffondere cultura, tradizioni e musica, senza la quale non potrebbero vivere. In ogni caso ho cercato di eliminare dalla mia narrazione il concetto di verità, troppo relativo. Più che un documentario, ho voluto fare una docu-fiction: andare, ispirarmi e riportare quanto visto in maniera fantascientifica, con la realizzazione del disco. Era difficile vivere la quotidianità del campo perché l’osservazione era edulcorata dalla mia presenza, dal capo missione, dai tour organizzati e dalle forze dell’ordine, che mi hanno scortato fin dal mio atterraggio con l’aereo dell’Unhcr per la minaccia del terrorismo quaedista. Per fortuna gli artisti non si pongono il problema della convivenza. Non gli importa di che colore sei, da dove vieni, in quale religione credi. È un grande insegnamento che questo progetto racconta. Un luogo dove scambiarsi informazioni culturali, artistiche, creative e poetiche, che va al di là di qualsiasi tipo di appartenenza.
Anche se la musica può veicolare messaggi.
Nelle loro canzoni i tuareg parlano sempre di guerre, incitano alla battaglia, hanno nostalgia delle loro terre. Ma è un linguaggio comune a tutti i profughi.
Quanti musicisti hai incontrato e quali ti sono rimasti più impressi?
Ho lavorato con una trentina di artisti, ne citerei due perché mi hanno segnato. Il primo è Mohamed Issa Ag Oumar, uno dei chitarristi dell’ensemble e già membro dei Tartit. Eravamo nella sua tenda, mi stava preparando un tè prima di suonare e mi ha raccontato della chitarra che aveva accanto. Era riuscito a diventare musicista grazie a un rito compiuto con quello strumento, nonostante il Mali sia un paese diviso per caste, dove se non provieni da una famiglia di musicisti non puoi inventarti tale. Da ragazzo lasciò quella chitarra, nascosta ai genitori fino a quel momento, fuori dalla sua abitazione in una notte di pioggia, in attesa che tornasse il padre. Se al suo ritorno il padre si fosse preso cura della chitarra e l’avesse portata dentro per ripararla dalla pioggia, quello sarebbe stato un segno di approvazione che avrebbe avallato la sua intenzione di diventare musicista. E così fu.
E il secondo?
Un musicista cieco, Aliou Ould Mohamed. Ha imparato a suonare la chitarra da solo, ascoltando la radio, i transistor che trasmettevano musiche anche occidentali, americane, il rock, il blues. È stato straordinario non solo perché autodidatta non vedente, ma anche per aver sviluppato una tecnica tutta sua, utilizzando le mani in un modo totalmente differente da come farebbe un chitarrista tradizionale. In termini di resilienza e forza di volontà è stato un altro grande insegnamento.
Come sono avvenute le registrazioni?
Ho chiesto a ogni band di suonare la propria musica per capirne le caratteristiche, avere le registrazioni delle loro musiche originali e potergliele restituire in un secondo momento. Faranno parte del seguito di questo progetto. Poi a una dozzina di loro ho chiesto di effettuare delle sessioni solitarie, in base alle parti vocali e ai singoli strumenti che mi interessavano. In altri giorni abbiamo suonato insieme: ho portato dei piccoli sintetizzatori e casse portatili per fare delle jam session, ma solo per creare feeling e fargli capire cosa sarebbe potuto succedere al mio rientro. Alcuni sono impazziti quando hanno scoperto il synth digitale portatile. Il griot Amano Ag Issa ha iniziato a suonarlo tra gli sguardi increduli, e il giorno successivo mi hanno chiesto di mostrare come funzionava ai bambini di una scuola. Hanno perfino organizzato un festival con tutte le band presenti nel campo. In quel caso le registrazioni sono state riprese direttamente dalle loro casse autocostruite, suonate con chitarre e amplificatori anch’essi “fatti in casa” e quindi con un suono sporco, distorto, ma assolutamente originale a livello timbrico. Tutta quella distorsione è entrata nella post-produzione dell’album per essere mischiata alle mie sonorità, però il risultato non ha niente a che vedere con la loro musica originale. Quella l’abbiamo registrata comunque, è una cosa diversa che, come dicevo prima, sarà utilizzata nel progetto di follow up per diffondere la loro musica e cultura.
Hai concluso le registrazioni nel tuo studio a Roma.
Non volevo fare un disco di musica tuareg, ma metterci del mio. Ho coinvolto collaboratori abituali tra cui Tommaso Cappellato alla batteria e musicisti selezionati appositamente per restituire certe sensazioni in maniera originale, come Adriano Viterbini.
Come sei arrivato all’etichetta di Peter Gabriel?
Un amico discografico, avendo ascoltato l’album, mi ha detto che sarebbe stato perfetto per la Real World e avrebbe provato a mandarglielo. Io molto scettico gli ho detto di fare pure (risata, ndr) e mai mi sarei immaginato di ricevere una risposta positiva in 24 ore. Dopo un anno di lavorazioni, credits, bootleg, parte di racconto e musicisti da ricontattare, siamo riusciti a chiudere tutto il processo.
Il desert blues ha riscosso un grande successo negli ultimi anni. Vedi un rischio inflazione?
Premesso che anche un appassionato faticherebbe a nominare cinque band tuareg famose nel mondo, è un genere musicale che sta tornando di moda, come tutta la musica africana, e forse solo adesso si sta prendendo qualche soddisfazione. C’è una ragione: la musica tuareg e del Mali non è folklorica o fine a se stessa, ma ha influenzato tutta (!) la musica bianca e nera che si è sviluppata nel giro di due o trecento anni. Blues, jazz, hip hop, rock, arriva tutto da lì. Robert Plant fa i dischi nel deserto. Iggy Pop fa i dischi con i musicisti del deserto. Diverse generazioni di artisti si evolvono facendo lo stesso e portando avanti la tradizione musicale del nord del Mali e dei deserti, che è stata sempre ripresa da tutti senza preoccuparsi del concetto di appropriazione culturale. Credo che l’evoluzione di un genere sia nella sua sintesi. Io sintetizzo linguaggi diversi grazie all’elettronica e provo a creare nuovi mondi. Con questo ennesimo progetto, l’ambito musicale del desert blues potrebbe arrivare alle orecchie di gente che prima non ci prestava attenzione.
Cosa pensi, invece, del rischio di appropriazione culturale?
Colpisce chi non fa il musicista di mestiere. Il mio ambito di ricerca è questo e lo faccio con loro. Se registro un disco con un griot del Mali come Baba Sissoko, io non mi approprio di qualcosa di suo o lui di mio, stiamo facendo un disco insieme. Lo stesso vale per Khalab & M’berra ensemble, siamo io e loro. Bisogna essere aperti sia in entrata sia in uscita. Vorrei che tutti si sentissero liberi di appropriarsi di quello che ho io, soprattutto delle mie culture, delle mie tradizioni e del mio credo religioso. Spero che un giorno il mondo sia abbastanza evoluto da farsi beffa di tutti i credi religiosi nel massimo rispetto delle idee di ciascuno.
Qual è il tuo credo religioso, l’afrofuturismo?
Sì, ma in realtà è una corrente letteraria, un’idea che fa riferimento a proiezioni future in cui il mondo sarà sempre più afrocentrico e nero. Lo vediamo già dagli spostamenti e dalle esplosioni creative da quelle parti. Certo, un conto è fare questo tipo di ragionamento da africano o afroamericano, un altro è farlo da studioso con una visione più generica ma tenendo a distanza ogni presa di posizione. La necessità di dover sempre esprimere il proprio parere mi mette in difficoltà ultimamente. Non mi piace dare la mia opinione, preferisco studiare, capire, raccontare.
Lo fai anche come ospite di Gilles Peterson sull’emittente Worldwide Fm. Si dice che tu sia il Gilles Peterson italiano.
(Risata, ndr) Io gli dico sempre che è lui il Raffaele Costantino inglese.
Questione di punti di vista, magari di predominio inglese sulla cultura musicale.
Gli inglesi hanno una cultura musicale, noi no. O meglio, abbiamo una nostra tradizione musicale legata al Mediterraneo, alla canzone, al pop e ad alcuni sperimentalismi, ma non abbiamo un’apertura come quella che arriva dall’Inghilterra. Il nostro processo di assimilazione è più lento e unicamente legato alla globalizzazione. Il loro, invece, è un paese già molto ibrido dal punto di vista etnico, benché causato da nefandezze, errori storici, violenze e colonialismo. Al netto di questo orrore le città inglesi, così come quelle americane, sono ricche di contaminazioni. L’incontro e la fusione di culture diverse porta linguaggi nuovi e, appunto, l’evoluzione della tradizione.
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