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Nel West End a Londra è in scena Kyoto, uno spettacolo che parla dei vari negoziati sul clima che hanno segnato la storia della diplomazia climatica.
Ho fatto una cosa che non facevo da tantissimo tempo: sono andata a teatro. E ho vissuto quello che il teatro fu in origine, un’esperienza catartica. Buttata dentro le fatiche, le emozioni, le frustrazioni e le esaltazioni di un negoziato internazionale e multilaterale. Ho assistito anche a quello che il teatro dovrebbe essere sempre: un confronto senza sconti con la realtà attuale, politica e civile. E l’ho fatto assistendo a uno spettacolo che parla dei vari negoziati sul clima che hanno portato alla stipulazione del protocollo di Kyoto.
Kyoto è uno spettacolo messo in scena al Teatro Soho Place di Londra, nel West End, e mette in scena alcuni dei momenti indelebili della storia della politica legata al clima: dalle prime conferenze alla nascita dell’Ipcc, fino a quando i negoziati internazionali sono arrivati al primo accordo multilaterale, mondiale, unanime e vincolante della storia: il protocollo di Kyoto.
Lo spettacolo mette in scena anche gli sforzi organizzati, ben finanziati e sofisticati di chi fin dall’inizio dei negoziati sul clima ha fatto di tutto per sabotarli. Anzi, fa ben di più, racconta la storia proprio da quella prospettiva. Don Pearlman, il protagonista e narratore della storia, ricopre anche il ruolo del villain. Un lobbista pagato dalle sette sorelle, le compagnie petrolifere, che lavora con l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio (Opec), mentre nel frattempo flirta con gli Stati Uniti d’America, usando tattiche precise che sono esattamente le stesse da più di trent’anni. Tattiche che non abbiamo ancora capito come disinnescare, nonostante siano sempre uguali.
Sminuire la scienza (e quando non riesci più, sminuire anche lo scienziato), spostare l’attenzione sui costi dell’azione e ignorare quelli della non-azione, insistere sulla procedura e non sul merito (ho riso ad alta voce quando il delegato dell’Arabia Saudita si infervora per i nomi da dare ai gruppi di lavoro, facendo perdere due settimane di negoziati), essere presente a tutti i negoziati, sempre.
Kyoto mette anche a nudo l’assurdità delle discussioni sulle singole parole, ricordandoti su quali frasi si negoziava trent’anni fa, aggiungendo però la maggiore consapevolezza di oggi. Nel 1990 si dibatteva sull’inserire o meno un riferimento ai benefici che avrebbero portato i cambiamenti climatici, si pensava che il riscaldamento globale avrebbe fatto anche cose buone. Ma ora sappiamo fin troppo bene che quei benefici non esistono e non esisteranno mai.
Mette però anche in scena quello che ho sempre percepito, ma di cui da ieri sera sono definitivamente e totalmente convinta: la cooperazione multilaterale sul clima è il calabrone della politica. Non c’è nessun motivo reale e razionale per cui dovrebbe volare, eppure lo fa. Nonostante siamo nell’era del disaccordo, ogni tanto il mondo trova un accordo.
Come avviene nella realtà, il personaggio a emozionare di più e strappare una lacrima è la delegata del Kiribati, un piccolo stato isola nell’oceano Pacifico. Uno di quegli stati per cui il riscaldamento globale non è mai stata una questione di strane previsioni meteorologiche, ma di esistenza e sopravvivenza. La nascita dell’Alleanza dei piccoli stati insulari (Aosis) è uno dei momenti più belli e rivelatori dello spettacolo.
Ma attenzione, in Kyoto non c’è l’ombra della retorica. Le Cop, il protocollo di Kyoto, e negli anni aggiungeremmo anche l’Accordo di Parigi, il consenso di Dubai sul fossile, sono quello che sono: degli sforzi imperfetti. Ed è questo il fulcro dello spettacolo. Non viene infatti rivelato se tutto questo è sufficiente o svelato se sia troppo tardi o meno: il tutto termina soltanto con una pioggia di petali di fiori di ciliegio giapponesi.
L’unico sfizio etico che gli sceneggiatori Joe Murphy e Joe Robertson si sono concessi è quello di puntualizzare che quando si entrerà in un altro negoziato impossibile ma decisivo, e lo sono tutti, ma quello di quest’anno forse lo è un pochino di più, bisognerà ricordarsi di loro. Di tutti i personaggi che hanno fatto parte dello spettacolo: di Angela Merkel, di John Prescott, e di Raul Estrada, che nel ruolo di Chairman della conferenza, mentre tutti stanno litigando, va a dormire, tornando poi più riposato e, prendendo tutti per sfinimento, li porta a un consenso.
Ricordatevi di questo, di leader imperfetti che hanno trovato il modo di essere d’accordo e alla fine gli è pure piaciuto. Hanno trovato il modo di volare, forse perché non sapevano di poterlo fare.
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