La tristezza, come un malanno passeggero, va curata. Ma non sopprimendone i sintomi. Va accolta, accettata, persino assaporata.
L’elogio dell’imperfezione
Alzi la mano chi, guardandosi allo specchio, non si
Negli ultimi anni sembra impazzare l’idea della bellezza come
“fisico perfetto”, un ideale che, seppur fugace e irraggiungibile
agli occhi di tutti, è diventato l’ennesimo cruccio per
dimostrarci ancora una volta che, volendo, all’infelicità
non c’è mai fine.
Come eterni adolescenti, rincorriamo modelli estremi creati nella
convinzione che bastasse pensarli per renderli reali. Il tempo
libero si è trasformato in una maratona tra salti del pasto,
allenamenti da far invidia agli atleti più scafati e corsi
di “taglia e cuci” dal chirurgo di fiducia.
Quello che potrebbe essere un “tempo per pensare”, per conoscersi
di più o semplicemente per dedicarsi agli affetti è
diventato un tempo svuotato di significati in cui allenare i
bicipiti anziché l’anima.
L’immagine sembra aver preso il posto della
fantasia trasformandosi in un involucro protettivo nei
confronti della fragilità interiore e alimentando
così la confusione tra “l’apparire” e “l’essere”.
Sicuramente, avere cura di se stessi vuol dire anche prestare
attenzione al nostro corpo ma esaurirsi in questo può
diventare un ostacolo all’evoluzione.
Dare spazio alla bellezza significa cercare un’armonia
nell’insieme di quello che siamo, mettere a fuoco
desideri, obiettivi, possibilità di realizzazione ma anche
imparare a rinnovarsi e crescere riempiendo la nostra
fisicità di un contenuto che anche l’inesorabilità
del tempo non potrà mai portarci via.
Gabriela Manzella
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