Mentre il Premio Cairo tende sempre di più verso la neutralità climatica, l’opera vincitrice esprime tutte le preoccupazioni di una generazione.
La Belle Époque di Boldini in mostra a Roma
Sbuffi di seta, piume di struzzo, vitini di vespa, convivi mondani e tutta quell’effervescente gioia di vivere che valse ad un intero periodo storico la sognante denominazione di Belle Époque, cioè di età felice per antonomasia. Non è frequente né scontato, neppure ai vertici della storia della pittura, che un artista esprima quella stessa abilità
Sbuffi di seta, piume di struzzo, vitini di vespa, convivi mondani e tutta quell’effervescente gioia di vivere che valse ad un intero periodo storico la sognante denominazione di Belle Époque, cioè di età felice per antonomasia.
Non è frequente né scontato, neppure ai vertici della storia della pittura, che un artista esprima quella stessa abilità sfoggiata da Giovanni Boldini nel catturare con tanta eloquente immediatezza il clima e il sentore di un tempo che non c’è più, ma che attraverso quelle tele continuiamo ad avvertire più palpabile e fascinoso che mai.
La retrospettiva antologica appena inaugurata a Roma nell’Ala Brasini del Complesso del Vittoriano espone al pubblico sino al 16 luglio una silloge di circa 160 opere del noto maestro ferrarese, ripercorrendo le fasi salienti della sua florida carriera, dagli esordi macchiaioli sino alla consacrazione parigina.
Malgrado le perplessità subito manifestate da alcuni critici riguardo alla selezione delle opere, che riserverebbe un fin troppo ampio spazio ai dipinti giovanili della prima maniera, la mostra curata da Tiziano Panconi e Sergio Gaddi si propone di offrire una delle più ampie panoramiche degli ultimi decenni sull’intera produzione boldiniana.
Tra olii, pastelli, disegni su carta e incisioni dell’artista ferrarese, affiancati a quelli di alcuni suoi contemporanei (da Telemaco Signorini a James Tissot, da De Nittis a Zandomeneghi e numerosi altri), il percorso espositivo si avvale di una serie di prestiti museali internazionali (Musée d’Orsay, Alte Nationalgalerie di Berlino, ad esempio) ma anche di opere provenienti da collezioni private, una delle quali – come vedremo – al centro di una controversia giudiziaria.
Il ferrarese che trionfò a Parigi
Nel linguaggio pittorico di Giovanni Boldini (1842-1931) possiamo rintracciare i retaggi di varie differenti tendenze artistiche: dal verismo agreste dei Macchiaioli, la cui lezione assimilata negli anni studenteschi all’Accademia di Belle Arti di Firenze si riverbera negli scenari rurali delle opere giovanili, fino all’evidente orientamento impressionista della maturità, di cui restano proverbiali le cosiddette pennellate “a frusta” o “sciabolate”.
Nella leggerezza eterea del suo tratto, al tempo stesso vaporoso e destrutturato, in molti hanno ravvisato l’influsso di Turner e di quel romanticismo paesaggistico col quale Boldini entrò in contatto durante il suo soggiorno professionale a Londra.
Il periodo inglese fu del resto immediatamente precedente al suo definitivo insediamento a Parigi, dove i riscontri positivi che il pittore ferrarese abitualmente riscuoteva negli ambienti aristocratici ed altoborghesi gli valsero ben presto l’arruolamento nella cosiddetta Maison Goupil, ovvero l’ambita scuderia di artisti (tra i quali anche Mariano Fortuny, De Nittis e vari altri) ingaggiati dall’omonimo e potentissimo mercante d’arte internazionale Adolphe Goupil.
E sarà proprio nella Ville Lumière che Boldini, tra i successi al Salon du Louvre, il fermento di Montmartre e i ritratti commissionati dalla nobiltà parigina, vivrà la propria consacrazione artistica e gli ultimi anni prima della morte.
Le femmes fatales e i ritratti dell’alta società
È altamente probabile che osservando i ritratti di Boldini un’istantanea e puntuale associazione di idee vi rimandi alle pagine di Proust e alla saga dei Guermantes, come ben sanno tutti quegli editori che spesso e volentieri hanno utilizzato proprio le immagini boldiniane sulle copertine dei vari tomi della Recherche.
Checché ne pensino infatti i detrattori, la pennellata di Boldini ha sempre l’aria di carpire un segreto, di rinviare ad un’ulteriorità indecifrabile, alludendo a una vita intima e complessa di cose e persone al di là della loro pur spumeggiante apparenza.
Ambivalenze e profondità che si possono riscontrare in ciascuno dei ritratti in mostra al Vittoriano, come ad esempio in quello notissimo di Giuseppe Verdi (alla cui effigie Boldini dedicò più di un’opera) proveniente dalla Casa di riposto per musicisti di Milano.
E ovviamente il soggetto privilegiato della ritrattistica boldiana non può che coincidere con l’immagine femminile, fulcro dell’universo esistenziale di un artista che, tra modelle ed aristocratiche, inanellò una lunga serie di convivenze ed incontri assai ravvicinati con alcune delle femmes fatales immortalate poi nei suoi dipinti.
Creature languide, trasognate, talvolta semisvestite, di una carnalità rarefatta, diafana e al tempo stesso sinuosa e sensualissima, enfatizzata dall’assai poco convenzionale postura “a serpentina” che in genere le caratterizza.
Tra le iconiche protagoniste spicca la celebre Donna Franca Florio, moglie di un facoltoso imprenditore palermitano che ne commissionò a suo tempo il ritratto, oggi prestato alla mostra romana sebbene coinvolto in una vicenda giudiziaria al termine della quale verrà probabilmente messo all’asta.
E proprio lei, Donna Franca, archetipo della femme fatale boldiniana riprodotta addirittura nel manifesto dell’esposizione, sarà definita niente meno che da D’Annunzio come “l’unica. Una creatura che svela in ogni suo movimento un ritmo divino”.
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