La maggior parte dei lavoratori sfruttati nel mondo del tessile è donna

L’80 per cento dei lavoratori sfruttati nel tessile è donna mentre la catena di comando del settore è in mano agli uomini

  • L’80 per cento dei lavoratori impiegati nel tessile, a livello globale, è donna. Soprattutto per quanto riguarda la manodopera e i livelli più bassi della catena produttiva.
  • Questo è frutto di una precisa scelta strategica fondata sulle disparità di genere: le donne costituiscono una forza lavoro più docile e flessibile e generalmente percepiscono un salario minore rispetto agli uomini.
  • A livello dirigenziale la situazione si ribalta: sono gli uomini ad essere in maggioranza, occupando posizioni di leadership e percependo una maggiore retribuzione. Solo il 14 per cento dei grandi marchi, infatti, è guidato da una donna.

La percentuale di donne tra i lavoratori nel settore dell’abbigliamento in Cina è del 70 per cento, cresce fino a 85 Bangladesh e raggiunge il 90 per cento in Cambogia. A livello globale, possiamo affermare che circa l’80 per cento dei lavoratori dell’abbigliamento siano donne. Questa sproporzione non è frutto di un caso, ma il risultato di una discriminazione di genere ben precisa: le donne sono desiderabili nell’industria dell’abbigliamento perché i datori di lavoro sfruttano gli stereotipi culturali a cui le persone di genere femminile sono spesso costrette ad aderire. Le donne sono più docili, flessibili, deboli e più semplici da arginare.

Reprimere una protesta è più semplice se a manifestare sono soltanto donne o ragazze, che spesso le situazioni di sfruttamento neanche le denunciano per paura di subire ulteriori abusi, spesso di carattere sessuale. In Cambogia nei primi giorni del 2014 ben 3 persone sono state uccise e più di 40 ferite nell’ambito della repressione di alcune proteste iniziate il 24 dicembre 2013: i lavoratori erano scesi in piazza per chiedere l’aumento del salario minimo a 160 dollari al mese. Più donne sono impiegate e più il rischio di una protesta del genere è basso.

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Cina, Bangladesh e Cambogia sono i paesi dove la percentuale di donne lavoratrici è maggiore © Allan Wadsworth

Lavoro femminile tra emancipazione e sfruttamento nei paesi in via di sviluppo

Storicamente, l’integrazione delle donne nel lavoro retribuito, è stata una delle forze importanti per l’emancipazione e la crescente uguaglianza di genere. L’economista sociale Naila Kabeer, nel suo saggio “The Power to Choose”, sostiene infatti che il lavoro nell’industria dell’abbigliamento abbia permesso alle donne del Bangladesh di ottenere il riconoscimento del loro contributo economico alla famiglia, e che le lavoratrici dell’abbigliamento tendono a essere più consapevoli dei loro diritti e ad avere una mentalità più critica rispetto alle altre donne.

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Molte fabbriche scelgono di impiegare donne piuttosto che uomini perché sono più facilmente sottomettibili © Iqram O Dowla Shawon

Se l’aspetto sollevato da Kabeer può rappresentare una faccia della medaglia, questo potenziale di trasformazione è certamente minato dalle condizioni di sfruttamento del personale femminile in paesi come il Bangladesh. In primo luogo, è importante capire il modo in cui le donne sono state integrate nell’industria: i paesi in via di sviluppo competono per produrre per i marchi multinazionali offrendo costi più bassi e una produzione più rapida e flessibile. In un’industria ad alta intensità di manodopera come quella dell’abbigliamento, questo si traduce in salari più bassi, orari più lunghi e standard lavorativi e ambientali pessimi.

L’integrazione delle donne nelle fabbriche di abbigliamento ha svolto un ruolo cruciale in questo processo: i proprietari delle fabbriche hanno infatti approfittato della posizione diseguale delle donne nella società per formare una forza lavoro ancora più economica, docile e flessibile. Così, invece di sfidare la loro subordinazione nella società, il lavoro nell’industria dell’abbigliamento la riproduce. Le donne tendono a guadagnare molto meno degli uomini, subiscono discriminazioni sistematiche e possono accedere solo ai lavori meno retribuiti, con scarse prospettive di promozione. Molte di loro hanno una scarsa sicurezza lavorativa e, se non sono disposte a lavorare alle condizioni stabilite dai loro datori di lavoro, corrono il rischio di perdere il posto.

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La donne spesso non denunciano le terribili condizioni di lavoro alle quali sono sottoposte per paura di ritorsioni e ulteriori abusi © Pham Yen

L’organizzazione Clean Clothes, ha raccolto ad esempio le testimonianze di numerose lavoratrici indonesiane, che riferiscono che “Le ragazze in fabbrica sono molestate dai dirigenti maschi che le chiamano nei loro uffici, sussurrano loro all’orecchio, le toccano, le corrompono con denaro e le minacciano di licenziamento se non fanno sesso con loro”. Se in generale la condizione lavorativa femminile è svantaggiata in tutto il mondo, in questi paesi la situazione è ancora più drammatica, sia dal punto di vista della retribuzione che della sicurezza. Sempre secondo quanto riporta Clean Clothes, in alcune fabbriche di abbigliamento è prassi chiedere alle candidate se sono sposate o se hanno intenzione di avere figli. Alcuni datori di lavoro infatti assumono solo donne single e senza figli mentre altri fanno firmare ad ogni donna un documento in cui si impegna a non avere figli durante il periodo di lavoro. In altri casi ancora viene chiesto alle candidate di sottoporsi a test di gravidanza durante la fase di assunzione: le donne incinte o quelle che rifiutano di sottoporsi al test vengono scartate in partenza. Le donne che si trovano ad affrontare una gravidanza durante l’impiego sono nella maggior parte dei casi costrette a nasconderlo, rischiando di causare problemi al feto, l’alternativa è ricevere molestie verbali, quote di produzione più elevate, orari di lavoro più lunghi e mansioni più difficili, come turni che richiedono di stare in piedi anziché sedute.

E in occidente?

Questa disparità e la disuguaglianza di genere non scompaiono quando si sale nella catena di comando nell’industria globale della moda, anzi. Parlando di posizioni di leadership infatti le donne le occupano per meno del 25 per cento se si prendono in esame le aziende di moda più importanti. Uno studio del Council of Fashion Designers of America, Glamour e McKinsey & Company ha infatti riadattato il concetto di “Glass Ceiling” in “The Glass Runway” , cioè passerella di vetro: solo il 14 per cento dei grandi marchi può vantare una donna al proprio vertice e meno del 50 per cento delle maison più blasonate è disegnato da una donna.

Maria Grazia Chiuri
Maria Grazia Chiuri è il direttore creativo di Dior: le donne che ricoprono posizioni di leadership nell’industria della moda sono meno del 14 % © Getty Images

Il report ha evidenziato come, durante la vita lavorativa di una donna nel settore della moda, si sviluppi una sorta di “ambition gap”: all’inizio della propria carriera il 70 per cento delle donne aspira a diventare top executive, mentre lo fa solo il 60 per cento degli uomini. Le ambizioni però poi si ribaltano lungo il percorso: quelle degli uomini continuano a crescere, raggiungendo il 91 per cento fino a toccare il livello di vicepresidente, mentre quelle delle donne rimangono al 73 per cento. Questo meccanismo suggerisce che le ambizioni delle donne non vengono coltivate lungo il percorso, oppure che loro stesse diventino sempre più frustrate e disincantate a fronte degli ostacoli incontrati.

In tutta la filiera della moda, gli uomini, nonostante rappresentino una minoranza, tendono a ricoprire posizioni meglio retribuite e di livello superiore, ad esempio come direttori generali. Gli uomini in generale si trovano a svolgere lavori più qualificati, più apprezzati e pagati anche quando si tratta di manodopera perché spesso hanno più opportunità di apprendere più competenze rispetto alle donne.

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