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La scultura di Adolfo Wildt tra Milano e la Mitteleuropa
Un imprinting squisitamente milanese inscritto in un percorso artistico dal respiro autenticamente mitteleuropeo: tali le ragioni dell’interesse locale e al tempo stesso internazionale della mostra dedicata ad “Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista”, ospite d’onore della Galleria d’Arte Moderna di Milano sino al 14 febbraio. 55 sculture in gesso, marmo e bronzo dalle quali affiora
Un imprinting squisitamente milanese inscritto in un percorso artistico dal respiro autenticamente mitteleuropeo: tali le ragioni dell’interesse locale e al tempo stesso internazionale della mostra dedicata ad “Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista”, ospite d’onore della Galleria d’Arte Moderna di Milano sino al 14 febbraio.
55 sculture in gesso, marmo e bronzo dalle quali affiora nitidamente la prossimità dell’autore alle suggestioni dell’espressionismo, della Secessione viennese e dell’Art Nouveau ma anche le altrettanto evidenti reminiscenze della tradizione italiana, soprattutto rinascimentale, nonché la predilezione per simbolismi elaborati e forme goticheggianti.
Il percorso espositivo, ideato nell’ambito di una collaborazione scientifica col Museé d’Orsay e il Musée de l’Orangerie di Parigi, ci conduce attraverso spunti figurativi sacri e profani, in un gioco di rimandi ed atmosfere che, oltre ad evocare nella memoria del visitatore l’arte dei due più celebri scultori contemporanei e concorrenti di Wildt, quali Rodin e Medardo Rosso, prevedono anche –come spesso accade nelle mostre a lui dedicate– un esplicito raffronto con le opere di Fausto Melotti e Lucio Fontana, i suoi più rinomati allievi della Scuola del Marmo fondata dallo stesso Wildt nel 1922 e annessa l’anno seguente all’Accademia di Brera, suo luogo di formazione.
Il legame territoriale con Milano appare così intenso che gli echi genealogici, ovvero i fermenti culturali connessi alla Scapigliatura o alla fascinazione futurista per la cosiddetta “città d’oro e di ferro”, si sommano ad una presenza diffusa delle opere di Wildt negli spazi urbani, tali da costituire quasi una sorta di prolungamento itinerante (illustrato su richiesta da apposite visite guidate) dell’esposizione in questione, dalle due “edicole” ospitate dal Cimitero Monumentale insieme a numerose altre sculture, al Sant’Ambrogio situato sia in Largo Gemelli (nella versione in bronzo) sia nel chiostro dell’Università Statale (in gesso), dall’Orecchio di Palazzo Sola-Busca alla scultura di Palazzo Berri Meregalli.
La mostra della GAM mira inoltre a situare in un equilibrato orizzonte critico un artista la cui fortuna fu alquanto movimentata e controversa, anche in virtù della prossimità di Wildt al regime fascista, culminata nell’adesione alla cerchia del “Novecento italiano” promossa da Margherita Sarfatti, che aveva cooptato al suo interno anche il torinese Medardo Rosso. Ma al di là dei geometrismi di ispirazione fascista e oltre le collaborazioni illustri –quali ad esempio quella con D’Annunzio che gli commissionò il monumento di Fiume– l’arte di Wildt, incentrata sulla ricerca dei differenti effetti di resa ricavabile dai vari materiali, è percorsa da una crescente tendenza alla rarefazione concettuale, che emancipandosi man mano dal realismo anatomico e fisiognomico approda infine all’essenzialità lineare delle idee e delle pure forme.
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