“La storia del cammello che piange”

Nel film di Byambasuren Davaa e Luigi Falorni, candidato all’Oscar nel 2005 come miglior documentario, il racconto dei rituali quotidiani e dei piccoli miracoli che scandiscono la vita di una famiglia nel deserto del Gobi.

Vale la pena di cercarlo fra la programmazione delle arene
estive o di attendere l’uscita del Dvd sul mercato italiano, per
vedere o rivedere “La storia del cammello che piange”, documentario
narrativo che racconta la vita quotidiana di una famiglia nel
deserto del
Gobi di fronte a un piccolo miracolo della natura. Il film,
infatti, parte con la nascita dei cuccioli di cammello nel deserto
e il rifiuto da parte di una femmina del proprio piccolo
perché nato albino.

Da questo momento, parteciperemo della sofferenza dell’animale,
espressa con un lamento che ricorda un vero e proprio pianto umano,
e seguiremo il suo calvario per alimentarsi e crescere, nonostante
i numerosi tentativi degli allevatori di far “riconciliare” madre e
figlio. La miracolosa pacificazione finale avverrà grazie al
potere taumaturgico
della musica
, attraverso un rito officiato da un
violinista fatto venire appositamente dalla città più
vicina: il suono dello strumento e della voce riusciranno a
sciogliere il rifiuto iniziale e a far “piangere” anche la madre
del piccolo cammello albino (oltre che a commuovere gli
spettatori).

Questo film, che unisce al realismo del documentario le tecniche
narrative della fiction, nasce dalla collaborazione a quattro mani
fra la mongola Byambasuren Davaa e l’italiano Luigi Falorni e
rappresenta la tesi di laurea di quest’ultimo alla scuola di cinema
di Monaco. L’idea di partenza è venuta a Davaa, originaria
di una famiglia nomade della Mongolia, per illustrare un rito ancora
diffuso nella tradizione locale, ovvero l’utilizzo della musica per
superare i traumi che la dura vita nel deserto riserva agli
animali: “Non ci sono testi cantati durante il rituale. E’ una
ripetizione continua delle lettere ‘Hoos’ – spiega la regista –
Questa parola non ha un significato, solo un effetto. E ci sono
suoni diversi per animali diversi. Le pecore, per esempio, sono
commosse dalle lettere ‘Toig’. I suoni vengono ripetuti molte
volte. Non so come si sia sviluppata questa tradizione, ma i nomadi
lo hanno sempre fatto in questo modo. Forse la musica fa sentire
gli animali più vicini agli uomini”.

Ispirandosi al modello dei documentari narrativi di Robert J.
Flaherty come “Nanook del Nord” e “L’uomo di Aran”, i due registi
hanno seguito la vita reale di una famiglia di pastori nomadi,
scandita dalla ciclicità delle nascite e delle stagioni e
ancora preservata dalle conseguenze negative del processo di
inurbamento in atto anche in Mongolia (nella sola capitale Ulan-Bator vive
il 50% della popolazione del paese).

Il risultato finale è uno spaccato realistico di uno
stile di vita suggestivo proprio perché lontano nel tempo e
nello spazio, ma che mantiene il sapore della
favola
grazie al lieto fine e alla descrizione
dell’immediata comunicazione fra psiche e istinto e del rapporto
privilegiato fra natura e uomo, ormai sempre più
drammaticamente compromesso.

Olimpia Ellero

 

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